Rocker & Youtuber – La musica in video sharing (con i protagonisti italiani di Youtube). Il nuovo libro di FRANCESCO BOMMARTINI

Divulgatori, musicisti, insegnanti e intrattenitori che diffondono la musica attraverso Youtube: questo è il fulcro del nuovo libro (il quarto) del giornalista veneto Francesco Bommartini, dal titolo Rocker & Youtuber”, disponibile sulle principali piattaforme digitali (Amazon, Ibs…), nelle librerie e – al prezzo calmierato di 13 euro con un cd omaggio e dedica – inviando una mail ad ArtCorner (artcornermusic@gmail.com).

“Ho intervistato alcuni tra gli Youtuber italiani più rilevanti”, spiega Bommartini, “scandagliando la loro passione per la musica e le loro idee sulla piattaforma che utilizzano per veicolarla”. Tra preferenze e modalità di approccio, nel libro sono riportate decine di dietro le quinte e curiosità sulla musica dentro Youtube in Italia. La copertina è opera del grafico Enrico Gastaldelli. Il libro è sostenuto da ArtCorner Music. I protagonisti intervistati nel volume sono accomunati dalla competenza in campo musicale e da un seguito importante sulla piattaforma di video sharing che fa capo a Google. Eccoli:

Andrea Boma Boccarussochitarrista ed insegnante metal oriented

Bernardo Grillobatterista ed insegnante di batteria dall’attitudine rock.

Claudio Cicolinchitarrista ed insegnante, gestisce il sito lezioni-chitarra.it.

Domenico Bini (cantautore classe 1960, comunemente conosciuto con l’appellativo di “Maestro”.

Daniele Montesi dei The Suckerz (divulgatore musicale rivolto ai giovani, tra elettronica e metal.

David Carelse di Chitarra Facile il canale dedicato al mondo della chitarra.

Danny Metalmetal god che coverizza brani impensabili e moolto radiofonici.

Enrico Silvestrinex vj di Mtv, ora attivo con il canale Alive.

Gianluca Grazioli di Metal.it, giornalista, dedito da circa 30 anni alla causa del metallo

Vinilicamenteil canale di Johnny, dedicato al vinile, con consigli di musica e approfondimenti tecnici.

Ma ci sono anche gli approfondimenti su: divulgatori stranieri (tra i quali Rick Beato a Anthony Fantano); i video musicali più visti su Youtube (a cura della giornalista Floriana Ferrando); la visione estera; le criticità relative alla concezione musicale classica che si scontra con Youtube e un’intervista esclusiva alla creatrice di What’s in my Bag

Da marzo 2020 Francesco Bommartini ha anche creato il proprio canale Youtube, in cui parla di musica tra interviste, approfondimenti, top 3, unboxKing e reaction. Un modo differente di fare giornalismo, che gli ha permesso di testare con mano il rapporto tra musica e Youtube. E di scrivere con maggiore profondità Rocker & Youtuber.

Francesco Bommartini è giornalista pubblicista. Esercita la professione da circa 15 anni, sia offline che online. Collabora con Il Fatto Quotidiano, Heraldo e portali web, fondando nel 2003 una delle prime webzine: UnderGround zOne. In passato ha pubblicato su Il Mucchio, Rumore, ExitWell, Classix e ha scritto due libri sulla musica italiana degli ultimi 20 anni (Riserva Indipendente Fuori dalla Riserva Indipendente) oltre a Verona Rock, a 4 mani con il critico rock Gianni Della Cioppa. E’ giudice delle Targhe Tenco dal 2014 e lavora come content strategist, copywriter, social media specialist.

intervista con PATRICK DJIVAS (PFM): “Il mestiere del musicista è in crisi. De andre’ voleva smettere prima dei concerti insieme. La tv uccide la nostra arte, e i talent…”

di Francesco Bommartini

Sabato 19 settembre sera alle 21 la Pfm, gruppo rilevante del progressive rock italiano e mondiale, suonerà a Cerea (VR), nello spazio dell’Area Exp (acquista il biglietto).

Per celebrare quest’occasione tutt’altro che comune ho deciso di contattare Patrick Djivas, bassista del gruppo dagli anni ’70. Ne è nata una lunga chiacchierata piena di spunti, veramente interessanti. Di seguito è possibile ascoltare l’audio, a seguire la trascrizione.

L’audio intervista con Patrick Djivas

Partirei dal live che farete a Cerea, nel sud veronese: cosa devono aspettarsi i fan da questo TVB – The Very Best Tour?

Si devono aspettare intanto una carrellata della storia della PFM. Partendo anche da pezzi dell’inizio, ovviamente non tutte le tappe, altrimenti il concerto durerebbe 8 ore. Una carrellata abbastanza significativa del lavoro che abbiamo fatto. Compreso anche parti di PFM in Classic, compreso anche qualche brano di Fabrizio. Insomma, la storia della PFM.

Quasi in toto…

Esatto. Tutto tutto no, perché sarebbe veramente difficile. Però con molti episodi che hanno costellato la nostra storia.

Quanto prevedete di suonare?

Di solito suoniamo due ore, due ore e un quarto.

Cosa è rimasto fuori dalla raccolta “The Very Best” e come è avvenuta la selezione?

Considerando che abbiamo fatto una ventina di album, ovviamente c’è molta roba che rimane fuori. Di solito facciamo le cose che il pubblico ama sentire. Che comunque ci rappresentano moltissimo, quindi ci sono certi brani che non possiamo non fare. Però ci sono anche delle cose un po’ particolari, come ti dicevo: PFM in Classic, facciamo anche delle cose di Fabrizio, facciamo qualche cosa della Buona Novella, che è molto forte musicalmente. E quindi c’è un po’ di tutto. Sempre con questa mentalità di rendere ogni concerto un evento abbastanza unico perché, sai, la PFM non è mai esattamente nelle stesso modo. La nostra fortuna è che tanti anni fa abbiamo deciso (ma non per un fatto di snobismo, ma per non voler essere fagocitati in una situazione) di non utilizzare i computer. Questo per darci un po’ più di libertà, per permetterci di allungare, di accorciare. È un po’ la nostra mentalità, noi abbiamo fatto circa 6000 concentri da quando abbiamo cominciato ed è ovvio che fare 6000 concerti tutti uguali sarebbe una cosa da diventare matti. Quindi abbiamo questo approccio molto, molto libero ai brani. Non so quante volte ho suonato Celebration, ma mai due volte uguale. Credo che questo valga un po’ per tutti, nel senso che è quello che ci fa rimanere vivi sul palco, con la voglia di suonare. Poi ogni tanto viene bene, ogni tanto un po’ meno, però la gente gode sempre del fatto che ogni cosa sembra fatta, non dico, per la prima volta ma…

Spontanea.

Sì, che ci piace fare con l’appoggio del momento, che non sia un vecchio brano rivisitato e fatto mille volte sempre nello stesso modo, perché tanto lo conosciamo a memoria. Ecco questo non appartiene alla PFM come modo di fare.

La mia curiosità resta sulla selezione. Nel senso che mi piacerebbe capire, nel momento in cui c’è stata la scelta di fare questa grande compilation, cosa avete fatto? Vi siete trovati tutti, c’è qualcuno che ha selezionato più di altri?

Sai, le selezioni di solito sono quasi automatiche. Come avviene con le scalette dei concerti. Ogni volta che facciamo le scalette cerchiamo di metterci dalla parte del pubblico. Non siamo di quelli che dicono “ah io quel brano lì non lo voglio più suonare”. Perché se il pubblico se lo aspetta e vuole sentire quel brano lì, glielo facciamo. Magari in modo diverso, un po’ particolare, modificando sia l’arrangiamento che le proprie parti personali.

Scusa se ti interrompo, ma io intendevo la compilation sotto forma discografica.

Quello è lo stesso discorso. È un discorso che arriva dai concerti, da quello che succede dal vivo. Franz (Di Cioccio) è sempre stato quello che faceva le scalette, ha sempre avuto questo pallino da quando abbiamo cominciato. A lui piace molto fare questa cosa qua, poi ne parliamo tra di noi e ognuno dice la sua. Però anche nei dischi Franz tiene molto alla scaletta, è uno che sta molto attento a queste cose. Magari io un po’ meno, perché ho un approccio più da musicista, tradizionale. A me interessa di più suonare, non mi interesso a certe cose. È questo il bello di essere in un gruppo: ognuno ha un suo ruolo. Questo avviene nella PFM sia per le situazioni di tutti i giorni sia musicalmente. La PFM è stato sempre un gruppo con musicisti completamente diversi tra di loro. In un gruppo hard rock ci sono 4 musicisti che suonano hard rock, che sono nati con l’hard rock e moriranno con l’hard rock. Invece la PFM no: ha un musicista che è arrivato dal rock, uno che arriva dal jazz, uno che arriva dalla musica classica, ognuno ha il suo mondo, in cui è nato. E bene o male quel mondo te lo porti dietro per tutta la vita. Diventa un po’ la tua specialità, anche se ovviamente essendo un musicista da tantissimi anni, hai una evoluzione, acquisisci esperienza. Però la tua partenza rimarrà per tutta la vita ed è una cosa molto bella della PFM, questa. Ed è quello che ci ha permesso di fare il lavoro di Fabrizio per esempio. Perché c’è molta ecletticità, perché ogni musicista ha un bagaglio suo che mette a disposizione del gruppo e la cosa bella è che ognuno ha il totale rispetto dell’altro. Non esiste il musicista più debole nella PFM, non esiste quello che ha meno voce. Ognuno ha il suo strumento e ognuno ha la stessa voce di un altro.

Democrazia soprattutto.

È una democrazia che si basa sul rispetto mutuo, l’uno dell’altro. Soprattutto all’inizio della PFM, questa è una cosa che mi ha colpito molto quando sono entrato. Arrivavo dagli Area ed ero più improntato, come mia natura, sul rhythm and blues e dal jazz. Che erano i miei due pallini e lo sono tutt’ora. E quando sono entrato nella PFM sono stato molto sorpreso da come loro si sono aperti totalmente ai miei modi di vedere e come io sono riuscito subito a dare un mio contributo dal punto di vista musicale, non stravolgendo assolutamente quello che ero. Anzi loro volevano questa cosa qua, ed è una cosa bella. Ed è quello che ci ha permesso di fare PFM in Classic, che ci ha permesso di fare Jet Lag, che ci ha permesso di fare il lavoro con Fabrizio che è completamente diverso, è una musica che non so nemmeno come definire. Ci ha permesso di fare degli scatti di immaginazione, perché è una musica molto minimalista in certi punti ed è addirittura free rock in altri. Quindi spazia a 360°. Questa è la cosa bella della PFM e questo avviene perché ogni musicista ha la sua personalità e non ci rinuncia, e ognuno ha il totale rispetto di quello che fa l’altro.

L’hai citato prima: De André. PFM suona De André, cosa ti ricordi del concerto ritrovato, che è stato pubblicato quest’anno?

Sai queste cose sono strane perché, quando le fai, non sai cosa succederà. Non immaginavamo all’epoca, quando abbiamo fatto questa proposta a Fabrizio, che poi si è concretizzata appunto con un concerto, anzi con 40 concerti che abbiamo fatto insieme più o meno, che avrebbe avuto questa portata. È quasi di cultura in Italia perché è diventato un evento enorme e non immaginavamo che questa cosa sarebbe stata così. Quindi noi l’abbiamo vissuta molto più serenamente, cioè molto più tranquillamente, senza sentire la responsabilità di fare qualche cosa che avrebbe forse cambiato la vita a tante persone. Perché Fabrizio aveva deciso di smettere in questo mestiere. Abbiamo fatto il lavoro insieme perché lui si è buttato a fare questa cosa ma quasi come ultimo… invece l’ha cambiato completamente, ha cambiato la persona perché lui si è reso conto in quel momento che aveva ancora tantissimo da dire, che non aveva ancora detto. Che era tutta la parte musicale. Poi lui era veramente bravo perché, dopo tutto il lavoro che abbiamo fatto insieme, ha fatto dei dischi estremamente importanti, con delle produzioni importanti che non hanno niente a che vedere con le produzioni normali di cantautori. Ma chi poteva dirlo? Sai, noi abbiamo fatto la proposta e lui dopo un po’ l’ha accettata. Il mondo intero italiano diceva che era una cosa assurda, che non avrebbe mai funzionato, nessuno lo voleva fare. Ma poi Fabrizio si è incaponito, lo voleva fare e alla fine si è fatto. Ma nessuno immaginava che avrebbe avuto questa portata.

Sono qua che sto sorridendo mentre mi dici queste cose perché comunque, effettivamente, anche i lavori che De André ha fatto dopo quel ’79 sono cose che rimangono. Come anche le cose che ha fatto prima, per carità, però con una capacità musicale, con una visione musicale diversa…

Con una completezza. È diventato lì l’artista a 360°. Adesso, non per denigrare qualcuno, perché per carità ci sono tanti altri artisti fantastici (all’inizio ho suonato anche con Lucio Dalla), ma credo che Fabrizio sia il più grande di tutti, in assoluto. Una produzione così importante, con brani così importanti che attraversano i decenni come se nulla fosse, perché quei dischi che abbiamo fatto insieme nel ’79 li ascolti oggi e…

Trasmettono ancora pienamente, cioè riescono ad essere opere immortali.

Sì esatto, perché sono testi, musiche, arrangiamenti, modi di suonare che non hanno età. Non sono legati ad un genere, non sono legati ad una situazione particolare, sono musica totale. Testi e poesia totale. E che tra parecchi decenni saranno ancora lì. Perché i giovani li scopriranno sempre. È stata senz’altro una cosa molto importante per noi, ma come tante altre cose. Per esempio, PFM in Classic è stato per noi fondamentale come esperienza perché, come sempre, abbiamo fatto un’esperienza che non era la solita che fanno gli artisti rock con la musica classica. Di solito cosa si fa? Si prende un pezzo di Mozart, o di Beethoven oppure di altri autori, e si suona con l’organo o con le chitarre etc. Noi non abbiamo fatto questo, questo è troppo facile da fare. Senza nulla togliere, ma per esempio Pictures at an Exhibition di Emerson, Lake e Palmer: hanno preso musica e l’hanno fatta moderna. Però non è tanto difficile fare questo. Quello che abbiamo fatto noi è completamente diverso: abbiamo preso la sinfonica che suonava esattamente la musica originale. Quindi suonava per esempio la musica di Beethoven, ah Beethoven non c’è perché non siamo riusciti a farlo con lui perché è talmente completo nelle sue cose che non puoi aggiungere niente. Ma per esempio Mozart, l’orchestra suona esattamente la partitura originale, e noi abbiamo aggiunto quello che forse Mozart avrebbe aggiunto se avesse avuto la PFM. Quindi abbiamo creato musica nuova all’interno della musica creata da Mozart. Ci vogliono i pazzi per fare questa cosa qua. Eppure l’abbiamo fatta, è stato uno dei lavori che ci ha preso di più in assoluto perché è molto complicato da fare. Però ci piaceva questa idea di inserirci all’interno di un pezzo di musica classica, immaginando che cosa avrebbe fatto l’artista se avesse avuto la PFM, che cosa le avrebbe fatto fare, se ci fosse stata la chitarra elettrica, l’organo.

È un’attualizzazione completa di qualcosa che è stato fatto prima ma che viene comunque rivisitato in un’ottica…

Viene quasi riscritta perché abbiamo aggiunto delle cose. Non è cambiata, non abbiamo modificato niente, abbiamo solo aggiunto. Per esempio, il brano parte con un pezzo di Mozart e comincia con un assolo di basso. Probabilmente a Mozart sarebbe piaciuto perché era pazzo più di noi. Ma è stata una cosa molto azzardata, invece secondo me, e non solo secondo noi, ma anche da un punto di vista di critica (noi eravamo preoccupati da cosa avrebbe detto il mondo della musica classica) abbiamo avuto delle soddisfazioni enormi sotto questo aspetto.

Non stento a crederlo. Dopo Emotional Tattoos avete qualcos’altro che bolle in pentola, di completamente nuovo?

Certo, assolutamente. Domani io sono in studio di registrazione. Stiamo facendo il disco nuovo, siamo già a buon punto.

Qualche anteprima?

L’unica anticipazione è che non c’è niente di nuovo e che è un disco completamente diverso da tutti gli altri.

Quindi è tutto nuovo?

Tutto nuovo assolutamente. Ma non solo i brani, ma proprio l’approccio, il modo di suonare, i suoni, come abbiamo sempre fatto. Non abbiamo mai fatto dischi uguali a parte i primi due che si assomigliavano abbastanza. Ma da quando sono entrato io nel ’73 non abbiamo più fatto un disco uguale ad un altro.

Siete veramente progressivi.

Progressivi nel senso che andiamo avanti. Fondamentalmente noi siamo musicisti e quindi in partenza quello che cerchiamo di fare è divertirci. Per avere un certo tipo di resa, questo non vale solo per la musica ma per qualsiasi cosa nella vita, per qualsiasi mestiere o attività, si deve fare il massimo che sei in grado di fare, non ci sono storie. Non è che, cercando di risparmiare le forze o le energie oppure il tempo, tu riesci a fare delle gran cose. Mai. Quando tu ti impegni a fondo su ogni cosa, e questo la PFM l’ha sempre fatto su ogni nota. Non abbiamo mai lesinato su queste cose. Il lavoro con Fabrizio si basa su queste cose perché lui faceva la stessa cosa con i suoi testi, e noi l’abbiamo fatto con gli arrangiamenti, le note, gli accordi. Abbiamo lavorato finché ogni nota non poteva essere modificata. Finché non eravamo sicuri che quella era la nota giusta. Abbiamo sempre avuto questo tipo di approccio, abbiamo sempre avuto questa mentalità e questo ci ha permesso sempre di metterci alla prova, ma nemmeno questo, perché non è un discorso di vedere se sono in grado di fare questo. Ho 73 anni, che me ne frega di quello che sono in grado di fare. È una mentalità, è un modo di essere, se tu sei così sei così per tutta la vita, è un’indole e diventa una regola di vita che tu applichi a qualsiasi cosa che fai.

Spingere sull’acceleratore il più possibile per dare il meglio.

Si, per dare il meglio di quello che sei in grado di fare. Questa è la cosa importante, non è tanto dare il massimo: dare il massimo non vuol dire niente. Cos’è il massimo? C’è il mio massimo, il tuo massimo, il massimo di qualcun altro. Quello che esiste è il tuo limite e se tu sei sempre al tuo limite questo prima o poi si alza. È una specie di scala che piano piano si alza, l’esperienza diventa costruttiva. È per questo che ogni disco è completamente diverso. Perché per noi sarebbe impossibile fare un disco che assomiglia a quello che abbiamo fatto prima perché magari ha avuto successo. In America l’establishment diceva che la PFM sarebbe diventata uno dei più grossi gruppi al mondo perché facevamo tournée, la gente impazziva ai concerti, etc… Ma noi cosa abbiamo fatto? Abbiamo fatto un disco di jazz, che è Jet Lag, e ci siamo tagliati le gambe da soli praticamente. Dal punto di vista commerciale non è la migliore cosa da fare. Però noi volevamo fare quello, perché in America eravamo molto a contatto con il mondo del rock jazz, per esempio Zappa. Eravamo molto amici di queste persone, ci suonavamo insieme, ed eravamo influenzati, e volevamo suonare queste cose qua. Non abbiamo pensato a fare qualcosa che assomigliasse a ciò che funzionava bene. La cosa importante è che tu fai le cose che ti piace fare, che vuoi fare. In questo forse ci abbiamo rimesso perché non siamo diventati uno dei più grandi gruppi al mondo come diceva l’establishment americano. Però a distanza di 35 anni siamo ancora qua.

Sì e avete anche ricevuto molti premi, anche recentemente, anche dall’estero, dal Regno Unito stesso.

Siamo stati votati gruppo internazionale dell’anno nel 2018, mi sembra, proprio in Inghilterra. Siamo arrivati al 49° posto dei 100 artisti più importanti di tutti i tempi. Abbiamo avuto grossissime soddisfazioni sotto questo aspetto. A parte il fatto che noi apparteniamo alla periferia dell’impero perché non siamo né americani né inglesi. Ed è proprio difficile per un fatto tecnico, perché tu non abiti in America o in Inghilterra. Tu sei in Italia quindi qualsiasi cosa fai la devi fare esattamente come quando loro vengono in Italia, che non è una cosa che appartiene al loro mondo. Come facevamo a lasciare tutto e ad andare a vivere in America o in Inghilterra? Come avremmo dovuto fare per raggiungere certi risultati? Ci saremmo arrivati di sicuro perché avevamo l’appoggio di tutti, dei critici, del pubblico, dei discografici, delle televisioni. Al “The Old Grey Whistle Test” che era uno show in Inghilterra all’epoca estremamente importante, dove erano passati tutti, Beatles, Rolling Stones, la prima volta che dovevano andare in diretta, perché è sempre stata registrata (e tra l’altro avevano una situazione di registrazione straordinaria, sembrava uno studio di registrazione di serie A e quindi la qualità del suono che c’era in quelle riprese era strabiliante) hanno scelto la PFM. Questa è una cosa che nessuno sa ma per noi è stata una grande soddisfazione. Hanno scelto noi perché, suppongo, che con noi erano tranquilli, che le cose sarebbero andate bene. Infatti sono andate benissimo e abbiamo avuto una soddisfazione incredibile. C’era questo presentatore che aveva questi modi di fare e questo modo di parlare, a voce bassa, molto molto pacata. Anche quando presentava i gruppi di hard rock, le cose più tremende, più potenti del mondo, lui aveva sempre questo modo molto british e non faceva mai un commento. Lui presentava e basta, mai un commento. Quella volta quando abbiamo fatto la nostra composizione perché ci avevano detto che doveva durare 9 minuti, lui aveva fatto questo gesto che il giorno dopo era su tutti i giornali, perché non aveva mai fatto un commento, né positivo, né negativo. questa è stata una grandissima soddisfazione ed è stata la volta in cui era in diretta per la prima volta. Eravamo molto felici perché era andata bene. Sai, noi all’epoca facevamo 300 concerti all’anno, perché in Italia facevamo pomeriggio e sera. Facevamo due concerti al giorno per tutta l’estate, e poi facevamo la tournée americana che di solito si componeva di almeno 80 concerti, perché ci sono tutta una serie di spese che devi ammortizzare in un certo modo. Quindi noi suonavamo molto nelle università. Facevamo una tournée americana, una tournée europea e una tournée asiatica. All’epoca non suonavamo ancora in Sudamerica. Quindi facevamo tranquillamente 300 concerti all’anno. Avevamo una forma fisica che era… l’anno scorso abbiamo fatto 109 concerti ed è una cosa che per oggi è una specie di record.

109 nel 2019 equivalgono ai 300 nel passato.

Esattamente, noi all’epoca ne facevamo di più perché avevamo la forma fisica, eravamo ragazzini.

Credo che questa trasversalità che vi portate dietro, anche fra Italia ed estero, il fatto che siate piaciuti nel tempo e abbiate mantenuto probabilmente una credibilità profondo nei confronti del pubblico nonostante i continui cambiamenti a livello discografico. Però appunto c’è questa credibilità che poi traspare anche dalle tue parole e che quindi vi permette ancora oggi di girare molto. Giusto?

Bene o male se vai a vedere la PFM sei abbastanza sicuro che non sarai deluso. Troverai anche qualcosa di diverso dal solito, anche se ci hai visto centinaia di volte. Un giorno faremo un concorso e daremo una medaglia chi ci ha visto di più perché c’è gente che ci ho visto non so quante volte. Eppure questa gente dice di non stancarsi mai, che è sempre diverso e questa è la cosa più interessante del nostro mestiere. Ed è quello che ci permette di andare avanti dopo tutti questi anni senza perdere entusiasmo.

Tra l’altro mi permetto di dire, allacciandomi al discorso che facevi prima, sull’impero inteso come britannico e americano, che in realtà anche all’interno dell’Italia ci sono delle città che hanno dei vantaggi dal punto di visto dei contatti musicali e del music business. Mi vengono in mente Milano e Roma, soprattutto. Magari ci sono città, come Verona dove vivo io, in cui se nasci lì e vivi lì magari fai più fatica.

Questo è un po’ un male dei tempi. Questo succede dappertutto, anche in America, in Inghilterra: se sei di Sheffield non avrai mai le stesse possibilità di uno di Londra o di Liverpool. La stessa cosa vale in Francia. Io sono francese, abitavo a Nizza dove ho iniziato a lavorare e non c’era niente, si doveva andare a Parigi. Però la differenza è che all’epoca io ho preso le mie cose sono andato a Parigi. Questa è la differenza che c’è con oggi. Oggi, perché le cose sono cambiate, non so se sia diventato più facile o più difficile vivere. C’è chi dice che prima era molto più facile, ma io ti posso garantire che ho fatto sei mesi di fame pazzesca a Parigi, mangiavo un giorno sì e tre no.

Posso portare il punto di vista dei miei coetanei: c’è stata una liberalizzazione del viaggio, inteso proprio come spostamento, perché gli aerei costano di meno però ci vuole comunque… Però se ti sposti a Londra il costo della vita è di un certo tipo, di solito o hai la possibilità oppure facendo altri lavori… Però penso che anche all’epoca fosse così, più o meno.

Ma certo, non c’è stata un’epoca d’oro in cui tutto era facile per il musicista. Almeno quando abbiamo cominciato, non solo io ma anche i ragazzi, come Franz, è stata un’era assolutamente facile, assolutamente. È chiaro che c’era meno gente, che c’era meno concorrenza. Però, sai, non avevamo nessun tipo di formazione, non c’erano scuole, non c’erano metodi. Per suonare dovevi inventarti le cose più assurde, ascoltare più musica possibile, cercare di tirare fuori le parti dai dischi, che non era facile perché all’epoca potevi mandare un 45 giri a 33 giri per rallentarlo e cercare di capire, però andava un’ottava sotto e non capivi più niente. Non era come oggi che invece puoi fare quello che vuoi con il computer.

Può essere che gli sforzi di cui parlavi prima hanno nobilitato anche la professione.

Il risultato è stato che all’epoca, proprio il fatto che il tuo interesse per la musica, per le musiche, perché si ascoltava qualsiasi cosa, qualsiasi cosa era un’informazione, qualsiasi situazione ti insegnava qualche cosa. Io mi ricordo che ascoltavo Amália Rodrigues, che era la cantante del Fado, portoghese, bravissima. Ascoltavo Trini Lopez, che era uno che faceva una musica strana. Poi ovviamente ascoltavo i Beatles. Ogni cosa era una sorgente di informazioni. Il risultato è che imparavi ad essere musicista prima di essere strumentista perché avevi un approccio molto musicale. Lo strumento era complicato perché non c’era nessuno che ti insegnava come utilizzarlo, dovevi farlo da solo e chiaramente perdevi più tempo. Mentre adesso è esattamente il contrario. Adesso il ragazzino che inizia a suonare, che va a scuola, in 6 mesi fa le scale, le cose.

Ma anche con internet, con YouTube ci sono le cose…

Trovi mille informazioni, che ti insegnano tutti i trucchi, però diventi strumentista prima di diventare musicista.

Stavo proprio pensando a questo, al fatto che avere tutte queste basi e queste possibilità oggi possa diventare quasi un vincolo eccessivo per l’aspetto creativo e di ricerca, intesa come la intendi tu.

In un modo diverso, anche perché oggi ci sono ragazzi fantastici nella ricerca, nella creatività. Però la maggioranza oggi lavora in quel modo. Lavora sullo strumento prima di lavorare sulla musica. Quindi questi saranno i musicisti che faranno delle gran scale per tutta la vita, delle cose molto veloci ma difficilmente troveranno la loro strada.

Come abbracciate voi lo streaming digitale e che idea ti sei fatto tu sulle attuali dinamiche del music business? C’è qualcosa che cambiato e che ti dà fastidio magari?

A me tendenzialmente non dà fastidio nulla perché il mio percorso musicale già l’ho fatto. Sono molto preoccupato però per il futuro dei musicisti di oggi. Sinceramente 40 anni fa se tu mi chiedevi: “incoraggeresti un figlio a diventare musicista?”. Io ti avrei risposto di sì, senza dubbio perché è un mestiere meraviglioso, perché ti insegna ad organizzare la tua fantasia, e poi potevi vivere, magari non diventavi ricchissimo però potevi viverne. Oggi invece gli direi di fare il musicista per divertirsi, non di farne un mestiere. Perché è un mestiere che non esiste più questo.

Lo farei anche io per il giornalista.

Il mondo digitale ha un po’ stravolto tutto. Chiaramente non si può dire che sia meglio o peggio, è diverso. È completamente diverso. È un po’ come i ciabattai, non esistono più. Ci sono un sacco di mestieri che non esistono più, ma questo non vuol dire che dovrebbero esistere. È così, è l’andamento delle cose. È ovvio che per chi ha vissuto un determinato periodo ci siano delle mancanze oggi, soprattutto per chi deve fare questo mestiere. Che poi è quello che succede con lo streaming, su Youtube per esempio prendi lo 0,000001 ad ogni passaggio, che è praticamente il niente, il nulla. Infatti se tu guardi a quello che sta succedendo al mondo della musica, il 95% dei musicisti vive dando lezioni. I musicisti si dividono in due categorie adesso: quelli che imparano e quelli che insegnano.

E poi magari suonano col gruppo perché vorrebbero farlo diventare un lavoro.

In realtà non funzionano nemmeno più i gruppi, da un punto di vista professionale sto dicendo, perché poi per divertimento, per carità, tutto funziona ancora come prima, con la passione. Ma anche le cover band non funzionano più, per esempio vai in un locale per suonare e la prima cosa che ti chiedono è quanta gente sei in grado di portare.

Sentito dire da uno della PFM fa un po’ specie…

Ma è così. Noi abbiamo molti rapporti con ragazzi che ci vengono a parlare. Le cover band una volta funzionavano, 15 anni fa, 20 anni fa, c’era un certo giro. Suonavano tutti i weekend, riuscivano a vivere in qualche modo. Se tu non porti gente ai locali non ti pagano, ti pagano in rapporto a quanta gente porti.

Non è sostenibile. Io ho sempre detto, nel mio piccolo, nelle mie esperienze personali a livello musicale, che tu come band offri un minimo di servizio, e per quanto poco ti diano, anche nell’ordine, per le band emergenti, di poche centinaia di euro, deve essere comunque garantito. Non può essere un cappio al collo il discorso di quanta gente mi porti, per poi andare a prendere quello che ti spetta a fine serata e sentirti dire “sì c’è la gente ma non ha bevuto abbastanza”.

Questa cosa deriva dal fatto che la musica è diventata gratis, su internet è gratis, ormai è tutto gratis.

Questa gratuità come concetto che forse ha rovinato una serie di cose anche a livello musicale.

Ha portato tanti altri benefici. Cioè, le cose si modificheranno, non so come. Io spero che questo mestiere riesca a stare in piedi. Questa è la cosa preoccupante. Perché, sai, ci sarà comunque una selezione sempre più importante e chi riuscirà a vivere e a campare di musica saranno sempre di meno. E saranno sempre quelli più bravi, quelli che ci mettono meno tempo a fare, quelli che costano meno. Ma questo è preoccupante perché può anche darsi che si arrivi ad un punto in cui il mestiere… Non sparirà mai perché c’è la passione per la musica, per suonare. Io ricordo che quando ho iniziato a suonare vivevo solo per quello. Non avevo nessun altro interesse, pensavo solo a quello, 24 ore su 24. È una passione che ti prende ed è più forte di qualsiasi cosa. All’epoca quando cominciavi tutto poteva succedere, ma non immaginavi mai di guadagnare, di riuscire a vivere di questo mestiere. Io non ci ho mai pensato, e poi alla meglio tu immaginavi di fare il musicista finché non andavi al militare o ti sposavi. Poi finito. Forse per quello che io non mi sono mai sposato e non ho neanche fatto il militare.

Anche oggi, sembra che sia tutto libero, però rimangono questo tipo di riferimenti…

Oggi però è un po’ normale. Come fai a prenderti la responsabilità di avere una famiglia, magari un figlio, avere delle spese se fai il musicista? Basta guardare cosa è successo con il COVID-19, perché in assoluto i musicisti e il mondo dello spettacolo sono la categoria più massacrata.

Tra l’altro ti dico questo, che è venuto fuori da altre interviste nel corso degli anni. Io vedo sempre di più che i gruppi e gli artisti sono tantissimi, sarà anche che con internet si ha più visibilità, magari ce n’erano anche prima così tanti ma si vedevano di meno, si mostravano di meno. Pare quasi, oggi, che pur essendo i soldi sempre meno in questo settore, gli artisti vanno nella direzione opposta, cioè aumentano. Magari si impegnano anche molto ma vengono ripagati in visibilità, ma che è una visibilità caduca perché si parla di milioni e milioni di artisti che sono su Spotify, quindi alla fine non è una visibilità effettiva. Diminuiscono i soldi, aumenta la visibilità e aumentano gli artisti. Mi sembra un controsenso.

Per quanto tempo faranno l’artista? In Italia le uniche cose vengono fuori sono quelle che vengono fuori dalla televisione. Da X-Factor per esempio. Se però ti fai i conti, quanti sono rimasti, quanti hanno tenuto?

Due più o meno.

Questo è per quello che dicevi. Perché tutto e subito, però dura quello che dura perché non ha sostanza.

Infatti nei talent quando esci di solito ti mandano a fare, se hai avuto un buon piazzamento, il firma copie nei centri commerciali, pieni di gente. Poi ad un certo punto vengono messi da parte e magari vanno dallo psicologo perché non ci stanno dentro, perché sono passati dalle luci dei riflettori al buio.

Esattamente quello che sta succedendo oggi e poi ci sono altri fattori. Il pubblico, non dimentichiamo questa cosa, di queste trasmissioni è un pubblico giovanissimo e molto di questo pubblico non esce la sera e non va ai concerti. Ha 14 anni, la gente ha paura di mandarli ai concerti. E quindi tu vedi delle cose che hanno un risvolto discografico importante, poi vai ai concerti: “tournée cancellata”, perché il pubblico è poco. Il loro pubblico è troppo giovane per andare ai concerti. È una situazione paradossale però è così, è un cambiamento tutto questo, perché è avvenuto talmente velocemente, da un giorno all’altro. Internet che è nato un po’ zoppicante, non si capiva e poi è esploso in un modo talmente incredibile, ed è stata una cosa stravolgente che nemmeno un autore di fantascienza avrebbe potuto immaginare.

Dal Grande Fratello in poi, perché internet in Italia si è iniziato a caricare in contemporanea con quella trasmissione, che sembrava orwelliana almeno nel titolo. Da lì è iniziato ad essere un declino dal punto di vista del pubblico, non c’è un ricambio generazionale. Io sono dell’83, diciamo che gli ultimi che vanno ai concerti sempre più rari hanno sopra i 25 anni, per stare bassi.

Andrà sempre avanti questa storia. C’è anche da dire che l’Italia è uno dei paesi più difficili, nel senso che in Inghilterra per esempio si suona molto di più, ci sono molti più locali. Magari non sono grandi cose ma riesci ad essere musicista. Anche in Francia è lo stesso.

In Germania non ne parliamo, è ancora meglio, sono esplosi generi come l’heavy metal, l’hard rock.

L’Italia è particolarmente massacrata anche perché la situazione in Italia è esclusivamente legata alla televisione. Internet ha dato la botta finale, ma la botta grossa l’ha data la televisione che si è accaparrata la musica. La televisione ha preso la musica e l’ha fatta diventare delle trasmissioni televisive. La musica non è più trattata come una arte a sé ma come una trasmissione televisiva. La nostra storia musicale è attraverso la televisione. X-Factor, Amici, Sanremo e via dicendo.

Si può dire che i talent siano una bolla che ha portato un pubblico intero, soprattutto una generazione giovane, ad interpretare la musica in una certa maniera e di conseguenza anche a non dare il ricambio generazionale che dicevo prima, ai live. Ai live inteso come live rock, diciamo di musica che non è prettamente mainstream, quindi non ricalca una serie di situazioni che servono nei talent.

Perché sono trasmissione televisive e non gliene frega nulla della musica. Hanno dei parametri molto precisi da seguire, altrimenti la gente non li guarda. Questi parametri vanno seguiti. Io ho lavorato parecchio per la televisione, nei periodi in cui facevo le sigle, queste cose qui, sono diabolici i ragionamenti che fa la televisione. Quando abbiamo fatto la sigla del TG5, ci hanno dato un papiro di 15 pagine, di quello che volevano, dovevamo dire questo, fare questo, pensare questo, e doveva durare 7 secondi. La televisione però pensa tutto, non c’è niente a caso, niente, è tutto pensato e ragionato. È tutto falso e pilotato. Quindi le cose non potevano che andare in questo modo. E poi la botta di Sanremo, che è la trasmissione più importante. I discografici che cosa fanno? Si occupano solo delle persone che vanno a Sanremo oppure che fanno i talent show. Altrimenti non hai nessuna possibilità di emergere.

Anche perché gli investimenti a pioggia, diciamo, sono di altri tempi, mi dicevano anche altri artisti indipendenti. È più facile rispetto a darti una mezza chance e poi vieni scaricato.

Se non c’è un ritorno immediato televisivo sei fritto. Puoi essere il più bravo del mondo ma non gli interessa. Perché i parametri sono totalmente diversi. Non esiste una trasmissione come Taratata, per esempio, molto forte sulla musica, The Old Grey Whistle Test, di cui parlavamo prima, Midnight Special in America, che noi abbiamo fatto molte volte, che sono trasmissioni di musica in televisione. Però sono trasmissioni di musica, in cui tu vedi un gruppo che suona dal vivo, che viene registrato e ripreso benissimo, che ha un buon pubblico. Ma questo in Italia non c’è più da tantissimo tempo, anzi non c’è mai stato veramente.

Quindi è una situazione culturale, diciamo, abbastanza profonda anche se negli anni che furono c’era più libertà di svisare anche a livello mentale sulle varie musiche. Anche la gratuità stessa è stata un peccato perché banalmente il disco comprato aveva già un valore nel momento in cui si spendevano i soldi. Dandogli anche una serie di opportunità e un certo tipo di approfondimento, cosa che invece oggi manca nel 99% dei casi attraverso lo streaming.

Prima c’erano i telefoni in cui dentro c’erano 3000 brani, 3000 canzoni. Dimmi tu come fai a sentire 3000 canzoni? Ne ascolti metà, poi ne ascolti un altro, sono lì e non ne fai niente. L’importante è che come al solito ciascuno si diverte. Ieri abbiamo suonato a Roma abbiamo avuto grande soddisfazione perché intanto era sold out, per quello che si può immaginare, perché era un luogo di 3500 posti, ma i biglietti in vendita erano solo 1000, per il discorso del COVID. Ed è stata una grande soddisfazione perché sono stati venduti tutti. Il pubblico era fantastico, è stato molto caloroso, veramente bello, con ancora più entusiasmo del solito se possibile. I concerti sono sempre i concerti non c’è niente da fare.

Quelli con la C maiuscola della PFM sicuramente.

Intervista a MAX STEFANI: 34 anni di MUCCHIO tra “critici sfigati”. E su SCANZI…

La video-intervista a Max Stefani

I SEGRETI della voce ESTREMA: la vocal coach ANGELA CASTELLANI spiega senso e dietro le quinti di SCREAM, GROWL e molto altro…

di Angela Volpe

La video-intervista!

I primi accenni di vocalità estreme, in particolar modo scream e growl, sono emersi già negli anni 70, ma come primo esempio di vocalità estrema menzionerei Chuck Shuldiner, che fondando i Death ha dato il nome a un nuovo genere musicale, il death metal per l’appunto. Da lì in poi molti cantanti si sono avvicinati a questo stile, emulando queste vocalità, spesso senza alcun tipo di formazione, pensando che occorra semplicemente urlare o grattare la voce. Al contrario, le vocalità estreme richiedono conoscenza e utilizzo di tecniche specifiche che tu hai approfondito, ci racconti le tue esperienze in merito?

Diciamo anzitutto che io nasco come cantante rock e metal, il mio percorso vocale inizialmente si è sviluppato in quel campo stilistico, e sono sempre stata molto attratta da quelle voci che vengono definite “perturbate, sporche, sabbiose” dato che il segnale vocale non è generalmente pulito e cristallino. In particolare io ho sempre amato le voci rock calde ma graffianti ed aggressive allo stesso tempo, posso nominarti come esempi massimi del mio gusto personale voci come quelle di David Coverdale, Eric
Martin, Janis Joplin. Mi sono sempre chiesta come potessero avere quei colori e quella gamma di effetti che mi piacevano tantissimo ma che un po’ per paura un po’ perchè ero all’inizio non sapevo come riprodurre. Tieni conto che 25 anni fa, quando io ho iniziato, in Italia non si parlava di distorsione vocale, benchè ci fossero esempi anche nostrani di esperimenti nel campo come quelli svolti ad esempio da Demetrio Stratos. Ma gli insegnati di canto ben si guardavano dall’insegnarlo perchè non sapevano
come farlo e perchè questi tipi di vocalità sono sempre stati considerati pericolosi e nocivi e di serie B. Così ho iniziato un percorso di studi prima negli USA poi in Spagna e in Italia per approfondire anzitutto l’anatomia e la fisiologia della voce e per capirne il vero funzionamento, e li, mi si è aperto un mondo che tutt’ora mi piace monitorare e continuare ad esplorare attraverso corsi e studi. Nel 2009 quando già insegnavo da circa 5 anni e avevo allievi che cantavano rock e metal e che contemporaneamente facevano diventare me allieva, nel senso che studiando e correggendo i loro difetti potevo iniziare a formulare un’idea per un percorso didattico ad hoc per quel tipo di vocalità, i miei studi sono convogliati in una tesi che ho presentato all’esame finale del master in Vocologia Artistica, master di alta formazione diretto dal Dott. Franco Fussi e dalla Dott.ssa Silvia Magnani presso il distaccamento ravennate della facoltà di medicina e chirugia dell’università di Bologna. La mia tesi era uno studio che voleva portare anzitutto all’affermazione dell’esistenza delle vocalità estreme e del fatto che sempre più allievi volessero approcciarsi a questo tipo di vocalità che purtroppo sino ad allora non era mai stata considerata seriamente dalla didattica e dagli insegnanti, e far riflettere sui rischi che questo rifiuto comportava, ovvero quello di farsi male, di non cantare più di trovarsi di fronte ad una schiera di disfonici cronici ecc…ho voluto inoltre rendere noti anche gli aspetti emotivi legati alle vocalità estreme come ad esempio
il fatto che questi cantanti si sentissero abbandonati, diversi e di serie B, perchè non facevano Jazz o Soul o Lirica. Poi ho realizzato e riportato un piccolo esperimento con dei cantanti estremi “non educati” che nel mio studio hanno eseguito determinati esercizi sotto il mio controllo e seguendo determinate indicazioni, ho misurato secondo determinati parametri fisici e acustici le varie performance pre-educazione e post esercizi mostrando che lavorando sulla respirazione, sulla postura e sull’articolazione si potevano ottenere degli ottimi risultati e da li ho formulato una proposta didattica di educazione per gli stili estremi partendo dal puro Growl del death metal e dallo Scream del Black metal. Poi nel tempo, per fortuna, l’argomento ha ricevuto maggiori attenzioni tanto che lo stesso Dott. Franco Fussi in occasione di un convegno nazionale sulla voce artistica ha parlato dell’argomento e ha proposto e condotto alcuni studi specifici su quelle che oggi vengono chiamate sonorità sovraglottiche.

Nell’uso comune, si è portati a pensare che per i cantanti di generi come ad esempio black o brutal metal, non sia necessario intraprendere un percorso “scolastico”, poichè quando si pensa alle lezioni di canto si pensa solo al canto melodico, lirico o moderno. Che rischi corrono i cantanti che utilizzano questi stili vocali senza una tecnica di base?

Si purtroppo questo pensiero, è ancora abbastanza comune soprattutto in Italia, nonostante negli ultimi anni gli studi siano progrediti grazie anche al contributo di esperti di livello internazionale o di foniatri e studiosi interessati all’argomento. Poi purtroppo nell’immaginario comune e dei meno esperti vige ancora quella regola che, se qualcuno canta in un gruppo rock o metal in automatico il cantante ti può insegnare come si fa. Cosa pericolosissima dal punto di vista vocale perchè magari anche quella persona semplicemente segue un’istinto naturale ma non sa esattamente come fa a produrre un certo effetto, quindi figuriamoci se può spiegarlo ed insegnarlo a qualcun’ altro. I rischi che si corrono nel capitare nelle mani
sbagliate, o affidarsi all’imitazione non controllata o a volte anche ai tutorial di youtube, sono esattamente gli stessi, ovvero quello di creare lesioni più o meno gravi alle corde vocali e alle strutture della laringe
che vengono coinvolte e fatte vibrare quando si parla di distorsione vocale. Le lesioni comportano afonie, incapacità di controllare lo strumento vocale in generale, scarso controllo della muscolatura intrinseca della laringe e dunque insufficienze adduttorie ed infine l’insorgenza di disfonie dovute a patologie più o meno gravi come noduli, polipi, edemi che possono richiedere come soluzione anche interventi chirurgici e riabilitazione logopedica… Con la voce indipendentemente dal genere non si scherza, per questo è importante affidarsi ad un insegnante qualificato che possa assicurare e mostrare la propria competenza non solo a parole.

Secondo te, le vocalità estreme sono solo uno stile e un effetto da utilizzare successivamente all’acquisizione di una tecnica vocale tradizionale oppure può esistere un bravissimo cantante growl che però non sa intonare una melodia? Intendo dire: un cantante moderno non è per forza un lirico, in quanto si tratta di due tecniche e stili differenti; un cantante “estremo” invece, deve conoscere anche il canto melodico moderno?

In fisiologia e nella musica si parla di “eufonia” ovvero del raggiungimento del suono migliore per una determinata voce in un determinato stile e per quel particolare soggetto che emette il segnale. Quando parlo di suono migliore non intendo un suono che sia gradevole dal punto di vista estetico, ma intendo un segnale che sia realizzato nel maggiore rispetto di quelle che sono le strutture dell’apparato fonatorio e respiratorio, di un segnale la cui produzione abbia un costo a livello muscolare, sì adeguato all’energia che
richiede lo stile, ma il più possibilmente conservativo della salute dei muscoli stessi e di tutte le strutture deputate alla fonazione. Il raggiungimento dell’eufonia individuale avviene ovviamente attraverso la guida dell’insegnante ma anche attraverso un processo di educazione dell’allievo alla propriocezione. Questa educazione può solo avvenire solo se l’allievo conosce prima teoricamente e poi praticamente come funziona il proprio corpo. Dunque, posso dire che non è necessario che un cantante estremo sappia eseguire un brano di Frank Sinatra ma è necessario che conosca quali sono i meccanismi che governano la sua voce. La tecnica di base e dunque come si respira, come si gestiscono gli spazi e le strutture della laringe, come funzionano le cavità di risonanza, gli organi di articolazione sono tutte cose che accomunano il cantante “normale” a quello estremo, e sono nozioni assolutamente imprescindibili dallo
stile. Dunque, non è necessario ripeto sappia intonare un brano pop piuttosto che jazz, ma dal mio punto di vista il fatto di saperlo fare può conferire maggiore coscienza e abilità diverse anche nel cantante
estremo. Personalmente, quando inizio un percorso con un allievo preferisco fare in modo che comunque sappia fare anche questo e che possa avere la possibilità di scegliere se farlo o no. Se pensiamo a cantanti
estremi come Corey Taylor degli Slipknot o Chester Bennington dei Linkin Park il saper cantare anche in pulito è fondamentale, certo se poi uno vuole impostare la propria vocalità alla Angela Gossow o alla Dani Filth di sicuro il pulito non serve. Però immagina di dover fare un provino per una band e di saper fare solo una delle due cose, questo magari potrebbe costarti il posto, dunque io preferisco insegnare entrambe le cose e fornire più strumenti possibili.

La formazione degli allievi però, passa dalla formazione degli insegnanti. Secondo la tua esperienza e opinione, esistono percorsi formativi validi per gli insegnanti di questo tipo di tecniche?

Diciamo che sia a livello nazionale che internazionale negli ultimi dieci anni sono fiorite scuole, corsi, corsi per insegnati che insegnano agli insegnati e cose varie, che personalmente non amo particolarmente.
Io sono tutt’ora un amante estrema della scienza e di chi la pratica nel quotidiano, per cui se fossi un insegnante che si vuole formare in questo campo anzitutto farei riferimento a corsi specifici organizzati da foniatri che si occupano dell’argomento, in prima istanza per poter comprendere in maniera effettiva di cosa si tratta, e poi per avere gli strumenti che possono farmi capire se un corso tenuto eventualmente da un insegnante che si dice specializzato è veramente valido o no. Poi devo dire che esistono corsi, seminari che promettono di insegnare queste tecniche in 1/2 giorni, ma la realtà dei fatti è che questo non è vero. Anche io organizzo incontri, ma lo faccio per avvicinare l’utente all’argomento, cercando di illustrarne la
complessità. Il seminario, può mostrarti semplici esercizi, semplici trucchi per realizzare un effetto ma la realtà è che se poi non si pratica, non si ascolta questo genere musicale, non si approfondiscono la varietà
enorme di effetti che si possono avere, non si è seguiti da un insegnante qualificato la cosa rimane fine a se stessa.

Ritieni che il livello generale di formazione degli insegnanti di canto in Italia sia tale da garantire l’insegnamento corretto e senza rischi agli allievi?

Per quanto riguarda la vocalità lirica ovviamente l’unico percorso è quello del Conservatorio, che però da qualche anno si è aperto anche a discipline più moderne come il jazz. Ma come dicevo poco fa, le parole o i curriculum valgono molto poco, valgono i fatti e la realtà oggettiva. Di sicuro in Italia e all’estero esistono percorsi di formazione di livello molto alto che possono formare in maniera completa un eventuale insegnante. Diciamo che non tutti seguono questa strada perchè lunga, faticosa e anche costosa.
L’insegnamento dal mio punto di vista è una vocazione, è una missione, richiede un’etica professionale che purtroppo a volte manca nel concreto della realtà che viviamo attualmente, spesso vige più la logica della quantità che della qualità che si traduce nel “un bravo insegnante ha tanti allievi” e poco importa se la formazione dell’insegnante è magari carente o a volte sostanzialmente inesistente. Negli anni purtroppo mi è capitato di lavorare con casi estremi di allievi evidentemente disfonici ma provenienti da esperienze di anni di studio con lo stesso insegnate che attribuiva all’emotività l’incapacità di raggiungere determinate note. A volte quindi districarsi da neofita in questo ambiente purtroppo è un po’ difficile, ma i
bravi insegnati esistono, basta cercare e prestare attenzione e non affidarsi al primo che capita per pigrizia. Il corpo parla sempre in maniera molto chiara, se non si vedono progressi o peggio ancora la voce inizia ad avere problemi, se vi sentite costretti, demotivati, appesantiti o non trovate risposte chiare alle vostre domande significa che la vostra scelta non è stata corretta.

Chi si avvicina al mondo del canto per la prima volta, come può trovare un buon insegnante? Quali sono i campanelli d’allarme che ci fanno capire che stiamo imparando male o viceversa?

Guarda sul mio canale “l’anatomia per il cantante” ho realizzato proprio un breve video con quelle che io ritengo essere le regole fondamentali che possono farti capire se chi hai davanti è un bravo insegnate. Ovviamente le mie sono osservazioni personali che però credo possano fornire a chi si avvicina in prima battuta al canto alcune linee guida:
Un bravo cantante non è detto sia un bravo didatta, ma un buon insegnante di canto deve essere un bravo cantante. L’insegnamento richiede capacità di osservazione, di ascolto, esperienza, conoscenza
approfondita dei meccanismi che governano la voce. Il possedere una buona tecnica e l’avere un talento non è garanzia che chi li possiede sia anche in grado di trasferirlo ad un’altra persona. E’ per questo che un
bravo cantante può non essere un bravo didatta, ma un buon insegnante di canto deve per forza essere un bravo cantante. Si, perchè conoscere la teoria e riempirsi di nozioni senza averne esperienza diretta è
altrettanto limitante e infruttuoso. Un bravo isegnante deve avere esperienza diretta sul campo, essere INTONATO e ANDARE A TEMPO.

Avere un’ottima e approfondita conoscenza dell’anatomia e della fisiologia e di tutti i meccanismi che governano la voce. Il buon insegnante di canto è quello che sa trasferirti questo tipo di nozioni
educandoti al rispetto e alla conoscenza. La voce è uno strumento e come tale deve essere trattata, andresti mai da un insegnante di chitarra o pianoforte che nemmeno conosce come funziona il
proprio strumento?

Conoscere più metodi e tecniche possibili per facilitare il tuo apprendimento. Nel canto non esiste un metodo unico, ne esistono molti, ma questo probabilmente già lo saprai… il buon
insegnante di canto è quello che conosce questa grande varietà di metodi e che al momento giusto sa utilizzare quello che può essere più fruttuoso nel tuo percorso

Possedere una conoscenza per lo meno di base della teoria musicale e dell’armonia. Questo per metterti in condizione di comunicare in maniera corretta ed efficace con i musicisti.

Essere in grado di valorizzare la vocalità dell’allievo rispettandone l’individualità e i gusti.

Il buon insegnante di canto è colui che sa riconoscere i propri limiti e sa quando è il momento di lasciarti libero.

Parliamo di te: attualmente di cosa ti occupi?

In questo periodo di stop forzato causa pandemia globale mi sto ri dedicando alla didattica e lo sto facendo virtualmente attraverso il mio nuovo canale di youtube “l’anatomia per il cantante” (che è anche un LIBRO) dove mi sono proposta di creare video in cui parlo dell’anatomia e della fisiologia della voce e dove affronto le più svariate tematiche che riguardano la tecnica vocale e il canto anche avvalendomi dell’aiuto di grandi professionisti e medici famosi a livello nazionale come la Dott.ssa Silvia Magnani, il Dott. Alfonso Borragàn… Mi sto ri-dedicando alla didattica perchè negli ultimi anni ho lavorato molto come cantante e performer all’estero e dunque tutto il mio tempo era assorbito dall’attività live. Sono stata in tournee per 3 anni con uno spettacolo dedicato agli ABBA in cui rivesto il ruolo di Agnetha, la bionda del quartetto che mi ha sostanzialmente rapito e con cui dovremmo ripartire in tournee a partire dal prossimo Gennaio 2021. Attualmente sono in oltre nel cast del Cirque du Soleil con il quale avrei dovuto partire lo scorso Gennaio ma la cosa per ovvi motivi è stata interrotta, lavoro nei Marrano come produttrice e performer per lo spettacolo teatrale “con un pizzico di swing”, ho lavorato e lavoro come turnista e corista per pubblicità televisive o per progetti musicali inediti che necessitano di questo tipo di servizi, quando sono in Italian lavoro anche come corista in diverse cover band, ho un mio progetto di rock originale con cui ho
pubblicato tre dischi di inediti scritti da me e arrangiati dal produttore Inglese James D. Bell e usciti per l’All Out Music di Londra con lo pseudonimo di La Strange, e presto sarò di nuovo live con una fantastica
band con cui faremo cover hard rock.

METAL DETECTOR: membri della security di Malpensa suonano una video cover dei JUDAS PRIEST. Intervista

di Francesco Bommartini (offri un caffé al mese per sostenere Accesso Riservato e le sue inchieste ed interviste https://www.patreon.com/accessoriservato)

Si chiamano Metal Detector, lavorano nell’aeroporto di Malpensa e sono saliti alla ribalta in queste ore per la loro cover di Breaking the Law dei Judas Priest. Mascherine, vestiti d’ordinanza, il 25 aprile hanno caricato su YouTube quella che hanno chiamato la “Home virus version”. Eccola qui sotto e, appena dopo, l’intervista con Ermes Pecorari, cantante dei Metal Detector con una storia tutt’altro che limitata a livello musicale!

Il clip dei Metal Detector

Ciao Ermes, puoi presentarti?

Sono Ermes Pecorari e vivo a Varese, più precisamente nel “ridente” paesino di Luvinate. Quest’anno compirò 50 anni, sono sposato e ho una “bimba” di 12 anni. Sono un agente di sicurezza aeroportuale a Malpensa da un sacco di anni e, ovviamente, il mio hobby, la mia passione e tutto il mio tempo libero si racchiudono in una parola, MUSICA! Dall’età di 15 anni ho la passione per il canto, il canto molto molto rock ovviamente. Mi diletto a registrare musica e a montare video, sopratutto adesso con molto/troppo tempo libero. Sono da sempre nel mondo metal/hard rock italiano. Negli anni ’90 ho dato vita a diversi progetti musicali e ho registrato 2 dischi (Insane Souls e New Kernel) con la mia storica band, gli Abnegate. Siamo apparsi su tantissime riviste di settore e siamo passati in un sacco di radio che proponevano il nostro genere. Con loro abbiamo fatto tour in tutta Italia aprendo spesso concerti a band nazionali e internazionali. Per un periodo ho, tra l’altro, militato negli Extrema, forse la più famosa e longeva metal band italiana, con i quali ho fatto parecchi live shows in tutta la penisola in sostituzione del loro storico cantante. Tra i vari progetti metal c’è stato anche quello dei Pwr. Con questa band ho registrato un disco (Silence) che ci ha portato anche a suonare come band di apertura al Gods of Metal del 1999 con i Metallica. Dopo il periodo metal ho dato vita a diversi progetti di rock/hard rock italiano con i quali sono stati registrati vari brani. Attualmente canto in una rock cover band, i Giudybrutto, con la quale ci esibiamo nei rock club (…ormai quasi in estinzione purtroppo!) lombardi e piemontesi e in un sacco di raduni di bikers, feste della birra e motoraduni. Da qualche anno faccio parte della mega band Rock in 1000 con la quale mi sono esibito in alcune manifestazione (Courmayeur – Val Veny, Milano – Linate, Milano – piazza del Duomo) e, probabilmente, parteciperò anche all’edizione 2021(l’edizione di quest’anno è ovviamente saltata!) di Parigi, allo Stade De France. Far parte di questa mega band è un’esperienza musicale favolosa, che esce da tutti i classici canoni delle rock band. Qui sono azzerati i virtuosismi, le interpretazioni personali e le improvvisazioni. Ognuno di noi deve imparare le proprie parti. Sai, 1000 musicisti sono difficili da tenere a bada! Suonare e cantare con 250 batteristi, 400 chitarristi, 300 bassisti e 300 cantanti è una cosa unica. Il bello è che tra i 1000 (ora siamo circa 1300!) trovi le più svariate etnie, le più svariate provenienze musicali, i più svariati ceti sociali, i più svariati professionisti. Puoi trovare fianco a fianco un avvocato, un ragazzo super punk, un poliziotto, un pilota di aerei di linea, un super metallaro insomma un mondo intero! L’amore per la musica metal, però, non si è mai spento. Infatti con una nuova band, gli Heil to the Empire, ho inciso un disco (Materia, con Amici musicisti che frequento da più di 30 anni e qualche altro “giovanotto”) che ha da poco visto la luce. In contemporanea all’uscita del primo singolo è uscito anche un primo videoclip.

Chi sono gli altri protagonisti dei Metal Detector? Si tratta di una vera e propria band?

La band Metal Detector non è una vera e propria band, mi piace definirlo un progetto virtualmusicale! Siamo 5 amici, colleghi e musicisti con un immenso amore per il rock e il metal. C’è chi suona o ha suonato più o meno seriamente e chi lo fa per gioco. La particolarità è che ci siamo trovati una sola volta in sala prove qualche annetto fa per strimpellare qualche canzone metal poi, per questioni di tempo e impegni vari, non ci siamo più trovati in una sala. È rimasto però un ottimo ricordo della serata e un progetto, i Metal Detector, che aleggiava su di noi! Per quello lo considero un progetto virtuale ma…non si sa mai!

Perché avete scelto i Judas Priest e quella canzone in particolare?

Ho voluto creare questo video per far sentire, in questo maledettissimo periodo, anche la voce di chi lavora in un aeroporto. Abbiamo scelto questo brano dei Judas Priest (nota band metal inglese) perché è una sorta di inno contro le guerre e le avversità e quindi anche uno stimolo a combattere, con tutte le nostre forze, questo maledetto virus! Tieniamo duro e andiamo avanti a testa bassa. I Metal Detector sono : Ermes Pecorari (voce), Maurizio Somma (chitarra), Fabio Donatiello (basso), Claudio Frascoli (chitarra) e Giovanni Tralongo (batteria).

Come é lavorare come security in aeroporto oggi e prima del lockdown?

Il lavoro nella security di un aeroporto prima di questo lockdown, era molto spesso frenetico e stressantissimo! Con il nostro lavoro si interagisce con migliaia di passeggeri provenienti da tutto il mondo è di tutte le etnie e religioni ogni giorno! Si conviveva con code quasi inestinguibili di passeggeri sempre. Questo maledetto virus cambierà drasticamente il mondo del trasporto aereo per molto tempo ma speriamo di tornare a vedere le nostre favolose e interminabili code. Già, sembra assurdo, ma un po’ ci mancano. La nostra società, la Sea spa, che gestisce in toto gli aeroporti milanesi, è una grande azienda con migliaia di dipendenti, ma è da sempre molto vicina a tutti i suoi lavoratori. Anche in questo brutto periodo si è dimostrata attenta nel cercare di tutelare al meglio la salute di tutti noi. Tra l’altro ha trovato l’iniziativa dei Metal Detector molto interessante e ci ha chiesto di poter utilizzare il video nei suoi canali di comunicazione. La cosa, ovviamente, ci ha fatto molto piacere e ci ha inorgoglito parecchio!

Pensate farete altri video o avete altri progetti? 

Magari nascerà qualche altra iniziativa musicale dei Metal Detector visto il grande successo, chissà! Speriamo di far sentire la nostra voce e quella di tutti gli operatori aeroportuali alle istituzioni perché il nostro lockdown potrebbe durare molto tempo!

Intervista a ENRICO SILVESTRIN: da vj di MTV a fondatore di ALIVE, sempre a suon di musica

di Francesco Bommartini

Attore in film e serie tv, polistrumentista, radio speaker e vj di Mtv. Ma oggi Enrico Silvestrin è innanzitutto fondatore e conduttore di Alive, canale YouTube in cui parla di musica attorniato da amici ed esperti.

E’ così, Enrico?

Si è questo lo spirito, diciamo che sono più amici e persone qualunque amanti della musica in maniera informale che esperti. Non ho mai amato più di tanto la prosopopea dell’esperto. Io per primo non mi considero tale: sono un appassionato di musica che può conoscere più o meno dischi, più o meno storie, più o meno cantanti. Sono come te, come tanti. La definizione di esperto non so neanche dove si possa conseguire. Non la puoi ottenere con degli studi. Anche il titolo di critico musicale non ti viene assegnato da nessuno, semmai puoi diventare giornalista.

Qual è il vero motivo per cui ha ideato questo canale e perché gli dedichi così tanta energia?

E’ un discorso di libertà editoriale, di avere un canale che sia fatto a mia immagine e somiglianza. Da un certo punto di vista è un’esposizione molto pericolosa. Sono stato 15 anni in tv come volto di operazioni che non erano mie, di una linea editoriale diversa, anche se nel posto più bello del mondo (Mtv). Non che sia necessario per chiunque, ma per me avere voce in capitolo è fondamentale, perché la musica che passo mi definisce e altrettanto come ne parlo. Sono arrivato allo streaming dopo anni di tentativi su piattaforme diverse, cercando di capire come poter ottimizzare. Dopo un anno e mezzo del mio canale, che ha cambiato più nomi, ho capito cosa funziona e cosa non funziona. Il feedback è importante. Ci sono format che sono nati e sono morti dopo tre puntate, perché capisci che non funzionano, anche se per te può essere il format più bello del mondo. Oggi ho un una proposta piuttosto precisa, ma sono sicuro che quando finirà la quarantena ci saranno delle cose che dovrò sacrificare. So benissimo qual è la ciccia del canale: sono le le Tierlist, sono le League of Rock…però cerco sempre di proporre altri format. In questo periodo non ci sono i programmi caricati, salvo rarissime eccezioni. Non pubblico da 20 giorni, ma sono in diretta tutte le sere. L’attività del live streaming per me è molto importante. Ho scoperto recentemente che Youtube non è il posto migliore per fare live streaming, quindi adesso mi sono spostato su Twitch.

La Tier List dei Police su Alive

A riprova del fatto che non sia stata “buona la prima” proprio oggi mi sono imbattuto in una tua puntata del 2018, con la scritta “Enrico Silvestrin tv” a video. La videocamera sfocava, tu e una ragazza bionda parlavate di Nutshell degli Alice in Chains. Ho pensato che c’è stato un miglioramento incredibile…

L’importante è partire con dei minimi requisiti, poi inizi a capire di che cosa hai bisogno. Adesso ho un assetto che è abbastanza definito. Ho il mio mixer, le mie due luci, i miei tre elementi scenici e allo stesso tempo so qual è la mia videocamera di riferimento. Ho un setup che è quello lì, prima di aggiungere qualcosa so che dovrà essere assolutamente una miglioria. Quando ho iniziato avevo la c 920 Logitech, cioè lo standard. C’era il green screen dietro, perché mi andava che ci fossero dei rimandi a quella che è stata la mia storia. Alla fine quello che conta secondo me è sempre quello che offri. Nel canale c’è un’educazione molto alta, la community non mi impone di dover bannare persone. Ho tre moderatori, da ieri ne ho aggiunto un terzo, ma stanno lì e si divertono. Di base non devono mai cacciare praticamente nessuno. Io lavoro tanto con i messaggi vocali, per me e il pubblico ha la voce! I messaggi vocali sono la base dell’interazione delle persone e non devo neanche mai scremarli per sentire se c’è la bestemmia, la parolaccia. Mi seguono un discreto numero di persone. So che potrei attirarne molte di più che ascoltano questo tipo di musica, che non sanno che hanno una voce, che hanno un luogo dove possono essere liberi di ascoltare quello che preferiscono, esprimendo la propria passione, così come lo facciamo noi. Il canale crescerà, ne sono sicuro.

A proposito di gente che ti segue…nell’ultima live sulla League of rock c’erano una media di 600 spettatori, quindi parecchi considerato che le dirette Youtube, almeno in Italia, non funzionano particolarmente. L’avvento di internet è stato sicuramente rivoluzionario. Tu come vivi la digitalizzazione della vita a livello personale e lavorativo?

Al 100%, perché io lavoro in digitale da casa, quindi per me è tutto digitale dalla fruizione della musica (perché non passo né vinili né tantomeno supporti fisici) al tipo di interazione. Faccio votare il pubblico attraverso Google. Ho risentito psicologicamente della quarantena ma non tecnicamente, nel senso che a me ha spostato poco. Certo, avrei voluto fare un format sui concerti dal vivo, e quindi uscire dallo studio, ma rimando a quando si potrà fare. Con il digitale posso entrare dentro casa di chiunque. Sono indipendente dalla tv, ed è un metodo che permette di differenziarti. Adesso è tutto diverso rispetto a quando in tv dovevi scegliere un programma per tutta la famiglia. Ora ognuno può vedere quello che gli pare su più dispositivi, in contemporanea. In questa differenziazione mi ci trovo bene. Certo, mantengo delle cose analogiche, come un format che si chiama Slow listening durante il quale si ascoltano gli album in maniera totalmente analogica, per far sì che il disco sia il centro della nostra attenzione in quel momento. Come succedeva una volta, quando per quei 45 minuti tu eri lì con il vinile sulle tue gambe a leggere i testi, a guardare le fotografie, a lasciarti ammaliare. Ovviamente, come tutte le esperienze fisiche, lascia una memoria che è fisica, perché tu ricorderai non soltanto l’ambiente dove ascoltavi quel disco se l’emozione è forte, ma anche le foto dell’interno, l’illustrazione, i testi. Oggi non succede perché magari stiamo facendo altro, perché magari stiamo ascoltando un album nel traffico con le cuffie, oppure con l’autoradio, oppure mentre facciamo jogging. Questo porta a una distrazione. I testi ce li perdiamo per strada molto spesso, se non si tratta di un album di musica italiana. E quindi io cerco di fare proprio questo: dare un format dedicato a un ascolto lento. Anche la chat viene disattivata. Stiamo facendo questo format su tanti dischi nuovi, proprio perché i nuovi erano quelli che ti andavi a comprare e che anche oggi hai bisogno veramente di ascoltare meglio. Allo stesso tempo faccio un format sulle copertine dei dischi intitolato Discover. Vengono mostrati tutti i dettagli della copertina: dietro ognuno c’è una storia. Questo è quasi old school come atteggiamento, secondo me. Insomma, mantengo uno spirito analogico nella digitalizzazione, cerco di equilibrare.

L’intervista video completa a Silvestrin

A me piace molto come parli di musica. Ci sono dei periodi della tua vita in cui inserire generi musicali specifici e gruppi per te importanti?

Sì, in adolescenza sicuramente. Come tutti ho avuto delle fasi. Quella iniziale è stata passiva, quindi ascoltavo i dischi che c’erano in casa, dove fortunatamente giravano da Pierino e il lupo di Prokofiev ai dischi di Lucio Dalla, da John Lennon a una compilation con i migliori successi di Battiato. Making Movies dei Dire Straits è stato un altro disco fondamentale per me. Suonando pianoforte ho proprio aperto gli orizzonti. Poi, da un certo momento in poi, nell’84 o 85, iniziai a far entrare l’heavy metal nella mia vita. C’era un amico che lo ascoltava e mi ha contagiato. E quindi sono iniziati a entrare nei miei ascolti gli Iron Maiden, i Metallica, Queensryche, i Deep Purple. Mentre i miei ascolti erano divisi tra metal e classica ho avuto una grandissima botta con gli U2, che sono stati la mia band preferita per diversi anni. Continuando a sommare ascolti sono passato al progressive, quindi mi sono avvicinato agli Area, ai Marillion, ai Genesis e ai King Crimson. Allargando ulteriormente ho iniziato a contenere sempre più sfaccettature, quindi per me la musica è sempre stata un insieme di generi. Nei primi ‘90 ho scoperto l’hip hop che per me è stato fondamentale, perché mi ha avvicinato alla cultura nera, che voleva dire soul e funk. Aprendo ulteriormente gli orizzonti ho avuto il periodo di passione per l’elettronica, che mi mancava totalmente. Un aspetto musicale che è diventato sempre più presente fino a che non mi ha dato la spinta per fare il dj. Per tanti anni sono stato un selecter che non sapeva mixare ma poi ho colmato questo handicap imparando a farlo con la musica edm, e ho iniziato a comprare decine, centinaia di vinili, anche di dance, house, tech house. Una delle mie più grandi fortune è sempre stata quella di essere molto aperto musicalmente. Non sopporto il termine “ostico”, nel senso che ogni musica può essere decodificata. Poi c’è un discorso chiaramente di piacevolezza. Ma quest’ultima arriva quando tu decodifichi qualcosa, perché anche un’espressione algebrica può essere un incubo, ma può diventare un piacere se la risolvi. In tutto c’è una soluzione. Quindi trovare le chiavi di accesso di certa musica secondo me è fondamentale. E’ un po’ anche quello che sto cercando di predicare all’interno del canale, perché mi rendo conto che avendo tante persone che vengono dal rock c’è astio nei confronti di tutto quello che è elettronico, di quello che è nero. La stessa musica dance non è considerata esattamente colta. Cerco di aprire la mente e rendere meglio predisposte le persone.

Una summa del periodo iniziale da vj di Silvestrin per Mtv

A proposito delle chiavi di lettura per comprendere i vari generi musicali mi viene anche da dire che forse questo era più semplice quando il tipo di ascolto era più concentrato, quindi legato al supporto fisico. Invece oggi con Spotify solitamente si parla di un ascolto più background. Ti trovi d’accordo?

Sì, è quello che dicevo. Siamo in una fase in cui la musica è parte di un multitask, quindi sta a noi toglierla dal flusso e valorizzarla. Poi ti abitui a riceverla anche in streaming. Strumenti come Spotify sono fondamentali oggi. Avere tutto per uno come me è un’opportunità. Non mi interessa avere un archivio fisico, mi interessa la qualità. Mi mancano le cose fisiche per i testi e le copertine: quelle sono le uniche due cose su cui faccio fatica ad adattarmi. E infatti conosco molti meno testi oggi rispetto una volta, quando avevo anche i libri dei testi dei Metallica, dei Joy Division che faceva Arcana.

Li fa ancora

Ne sono felice. Insomma, è un’esperienza comunque legata a un pubblico nostalgico. Da quel punto di vista il tema della nostalgia è importante sul canale, e io cerco di dargli un giusto equilibrio. C’è questo format che si chiama New Classics che ho dedicato ai nuovi classici. Così si permette di scoprire musica nuova, perché altrimenti resteremmo sempre ancorati ai dischi del passato. E’ come se all’improvviso ti chiudessi in isolamento totale. Immagina se a 40 anni non conoscessi più nessuno di nuovo, non facessi più nuove amicizie, non avessi un nuovo partner perché tanto hai già vissuto e le cose di prima sono le migliori…è un concetto assurdo! La musica per fortuna continua ad essere bella, quindi io mi scateno contro il luogo comune che non si faccia più musica buona dal…’91, dal 2005, dal ’94, dal ’95…”la musica di oggi è tutto uno schifo, una monnezza”, si sente dire spesso. No ragazzi, é che non la ascoltate la musica di oggi, non la cercate, non avete più la voglia. Siete diventati pigri! Perché è impensabile che la creatività dell’essere umano sia continuata in altre arti – come il cinema, la scultura, la pittura, la scrittura – ma incredibilmente si sia arenata nella musica. E’ impossibile da pensare che l’uomo non sappia più scrivere canzoni che non siano in grado di emozionare. Se non sai dove cercarle il mio è un canale che assolve a questa funzione. Se fosse un canale solo di nostalgia per disillusi, per disincantati, per pigri…sarebbe la morte. Da me c’è una rotazione quotidiana di 20 o 30 brani. Sono canzoni che hanno una settimana di vita, e la settimana dopo si cambiano! Ci sono persone che scrivono dei commenti dicendo che da quando frequentano Alive hanno talmente tanta roba in più che non riescono neanche a trovare il tempo per ascoltarla. Quindi pensate che valanga di musica c’è! Poi puoi fare i paragoni tra la qualità nei singoli anni. Ieri abbiamo fatto una puntata dedicata al 1971, uno degli anni più incredibili. C’erano un sacco di artisti molto in gamba ma se avessimo preso quell’anno settimanalmente e lo avessimo vissuto così, scomponendolo, probabilmente avremmo trovato anche tanta monnezza in mezzo a quei capolavori. Il problema è che quando tu guardi un album fotografico fai già una selezione, ma il rullino è una roba diversa. Il 2019 è stato un anno fantastico per la musica con dischi importantissimi, e questo 2020 è ancora meglio perché stanno uscendo dei capolavori. L’ultimo disco di Fiona Apple è uno dei più importanti della storia della musica e avrà quel valore. Ma è uscito adesso. Su Metacritic è il disco con le più alte medie di recensione di sempre. E’ una risposta in faccia a chi dice che la musica non esiste più. A me spiace quando ci sono portali come Rockol che dicono che la musica è morta nel ’91. Io veramente vorrei chiedere: perché vi mettete in bocca una frase del genere? Con quale arroganza spegnete anche percettivamente gli entusiasmi delle persone? Il mio canale si chiama Alive, non si chiama “dead”. Perché se la musica fosse morta nel ‘91 non avrebbe senso nulla. Per fortuna non è così. Mi chiedo perché lavorare su messaggi negativi quando invece bisognerebbe lavorare su quelli positivi, soprattutto per quanto riguarda l’arte.

Nel corso della tua carriera quali sono stati gli artisti che ti hanno reso la vita più difficile e quali invece quelli che hanno superato le aspettative in termini di affidabilità e disponibilità?

Mah…notoriamente difficile da intervistare era Mark Lanegan perché è molto chiuso e risponde solo ad alcune domande. Si era instaurato tra me e lui un rapporto stranissimo. L’ho intervistato 3 o 4 volte, soprattutto mentre militava nei Queens of the Stone Age. Ricordo che durante un’intervista lui era in un angoletto e mi rispondeva quasi a monosillabi, anche un po’ infastidito. Però ha capito che c’era in me genuinità e passione, che gli volevo bene. Magari la volta dopo si faceva la foto con me dandomi degli attestati di stima, ma nel momento in cui partiva l’intervista si spegneva: non ti dava nessun tipo di soddisfazione. Magari gli chiedevo: “quando eri adolescente che musica ascoltavi?” e lui rispondeva “io non sono mai stato adolescente”! Dava sempre risposte chiuse, non c’era speranza di cavargli fuori nulla. L’artista che ho amato di più intervistare invece è stato Noel Gallagher. Era uno difficile. Se lo prendevi male ti massacrava, ma se andavi nel verso giusto ti dava tantissimo. L’ultima intervista che ho fatto con lui nel 2005 é una delle più belle. Si trattava di un’intervista in inglese che è stata divorata dai fans internazionali. I commenti sono principalmente di stranieri e quasi tutti hanno delle parole di apprezzamento per il lavoro che feci.

Dove fu pubblicata?

Per Supesonic di Mtv, tratta da un concerto all’Alcatraz di Milano. Se oggi dovessi spendere una fiche per intervistare qualcuno sarebbe sempre la stessa fiche, su di lui.

Hai dei riferimenti a livello lavorativo? Mi riferisco in particolare all’ambito musicale, quindi speaker radiofonico-televisivi e giornalisti…

Assolutamente. Io amo Zane Lowe. E’ stato molto importante in un periodo cruciale nei primissimi anni 2000. Faceva dei programmi che per me sono stati una rivelazione su come si potesse condurre in maniera molto sobria ma allo stesso tempo accattivante. Mi ha consentito di fare poi una scelta anche di campo per i programmi che conducevo, cioè abbandonare quelli pop e specializzarmi in quello che piaceva a me, quindi i programmi di profilo musicale alternativo. Ci sono altri due riferimenti di oggi. Uno è Rick Beato, che parla di musica e condivide in maniera molto calda anche il tecnicismo. Lui ti spiega come si suona un brano, come è stato registrato, isola le tracce per riascoltarle. Quel tipo di comunicazione è fondamentale. Fantano mi piace molto per il tipo di personaggio, lo trovo però molto freddo per quanto sia estremamente preciso e abbia un linguaggio perfetto. Io amo il calore, a me piace la critica fatta da chiunque. Lui è fantastico nel contestualizzare, le parole che usa sono perfette. Gli manca quel tipo di calore che aveva John Peel, che è stato per me il monumento. Jools Holland invece non lavora tanto sulle parole ma sul trasporto. In Italia siamo in pochi a fare i divulgatori ed è secondo me il ruolo che manca. E’ sempre stato fatto in maniera sbagliata, da professore, da maestro, da portatore sano di prosopopea, da snob. Se penso ai critici musicali mi viene in mente gente con voci nasali, con un modo di parlare totalmente distaccato. Ogni tanto mi arrabbio con la community perché se passo un pezzo il primo pensiero è “questo assomiglia a”…sì, ma ti piace o no? Prima dimmi questo, poi vai a pensare a che cosa ti può ricordare! Perché l’esercizio non è quello di scoprire che cosa ti ricorda, tu ascolti un brano per capire se ti piace, se ti da un’emozione. Più perdi tempo a pensare a che cosa assomiglia più ti allontani dall’emozione. Ed è il motivo per cui purtroppo non ci facciamo arrivare il bello delle cose: perché siamo troppo concentrati su questioni secondarie

Uno dei motivi per cui credo di essermi appassionato molto alla scena metal è proprio questo, il fatto che tendenzialmente i metallari hanno questo spirito molto libero, scevro da queste sovrastrutture. Quindi quando c’è un pezzo che piace si fa headbanging o lo si dice in modo molto viscerale. Ti faccio l’ultima domanda: come hai conosciuto Armandino, Polgar e De Gregori?

Armandino è uno storico dj romano e l’ho conosciuto tanti anni fa ormai, all’inizio degli anni 2000. Siamo diventati amici nel corso degli anni e ha condiviso con me una grossa parentesi, quella dell’inizio della mia fase di streaming. Insieme provavamo, in maniera un po’ goffa, su Facebook finché sono arrivati alle minacce per farci smettere. Con Armando volevamo fare vere e proprie trasmissioni di video musica, quindi mandavamo i video proprio perché ancora non sapevamo come si stava al mondo. Il problema è che se mandi un video ti “uccidono”. Poi insieme abbiamo condiviso un anno in radio. Andrea De Gregorio e Gabriele Polgar sono semplicemente i miei due migliori amici, sono due ragazzi come tanti. Gabriele è un assicuratore e istruttore di krav maga che ho conosciuto qualche anno fa allenandomi, invece Andrea è un amico ormai da quasi 15 anni, e gli ultimi 10 li abbiamo vissuti con maggiore intensità. Il mio canale è fatto di persone normali. Mi fa ridere il fatto che le persone vadano a cercare Gabriele Polgar pensando che sia un critico musicale. E invece no.

Cercando Polgar su YouTube escono video di scacchi…

Sarà opera di un omonimo…

…oppure sarà una terminologia degli scacchi. Sta di fatto che ti ho dato un’arma per dileggiarlo in diretta

Assolutamente. Lo spirito è quello: se io mettessi quattro critici musicali a decidere qual è la migliore canzone degli Iron Maiden farei una roba di un pesante…non esistono quattro critici che si ritrovano a fare quella roba lì, ma esistono quattro amici che si ritrovano davanti a delle birre a cercare di capire qual è la migliore canzone degli Iron Maiden. Io sono esattamente quella persona lì. Non sono un intenditore di musica o chissà che cosa, sono un appassionato che ama parlare di musica con altri due o tre appassionati, con tutti gli errori possibili comporta. Questo è un canale per nerd musicali.

La condivisione di passione è fondamentale, sono completamente d’accordo con te, così come concordo sulla pesantezza di chi guarda sempre il bicchiere mezzo vuoto…

Io sono abituato a fare i conti con quello che ho e spesso non ho tanto. Io farei una League of Rock prendendo 10 dischi a caso. Noi passeremmo due ore a divertirci come i pazzi, non perché siamo lì a pensare che manca qualcosa ma perché saremmo concentrati su quello che abbiamo in quel momento. Quello è lo spirito che bisogna recuperare: passione e consapevolezza che la musica sia viva, che esiste.

Se penso ai critici musicali mi viene in mente gente con voci nasali, con un modo di parlare totalmente distaccato.

Enrico silvestrin

Dentro o fuori

Oasis o Blur?

Allora, dentro gli Oasis e fuori Blur fino a che si sono sfidati con le stesse armi, dentro Blair e fuori Oasis nel momento in cui i primi hanno capito di essere una band che poteva innovare. Non riesco a fare una summa. I Blur hanno avuto tre momenti: fino a ParkLife, da quello in poi e poi tutta la fase diciamo ultima, dei dischi di grande spessore. Gli Oasis di base hanno una fase. Scelgo i Blur come musicisti e Noel Gallagher come compositore.

Vino o birra birra?

Birra

Nirvana o Peral Jam?

Dentro i Nirvana. E’ una sfida impari perché non sappiamo che cosa avrebbero fatto i Nirvana successivamente, come sarebbero diventati se avessero avuto la stessa longevità dei Pearl Jam. I Nirvana non hanno mai avuto un calo, i Pearl Jam hanno inseguito un disco, oggi è il pubblico che insegue loro, ma non godo con i Pearl Jam da tanto tempo.

The Smiths o The Cure?

Gli Smiths dentro perché sono più importanti per la storia della musica. I Cure sono un fantastico esempio di longevità, di esigenza di scrivere, di continuare a fare musica con dei capolavori maestosi assoluti. Disintegration è uno dei miei dischi preferiti di sempre. Ma gli Smiths sono fuoco e fiamme per i pochissimi anni in cui sono stati in vita e hanno un impatto nei confronti non solo della musica britannica della musica mondiale che poche band hanno avuto.

Radio o tv?

Radio, sempre radio. Ho bisogno delle immagini ma ho più bisogno della voce e ho bisogno di un linguaggio comodo, come quello della radio. Non mi piace però la radio troppo veloce come è quella di oggi, con troppo poco tempo per parlare. Parlano tutti perché sono quasi sempre talk ma parlano pochissimo.

Iron Maiden o Metallica?

Sono due carriere un po’ simili, alti e poi bassi. Ti dico i Metallica perché sono meno barocchi rispetto ai Maiden. Preferisco la sintesi dei Metallica dei primi quattro dischi che non la grandezza dei Maiden dei primi sette.

La speranza di 150 persone per un videoclip su HEAL THE WORLD di JACKSON

di Angela Volpe

Inutile dirlo, stiamo attraversando un periodo duro, che mette alla prova tutto il mondo e il singolo individuo. Le restrizioni più difficili da accettare sono quelle che minano il nostro benessere: incontrarsi con gli amici, andare in palestra, al cinema, ai concerti, solo per citarne alcune. Ciò provoca frustrazione, tristezza e senso di isolamento. Per contrastare questo clima di comune afflizione, Miza Productions, un’agenzia musicale di Milano, ha deciso di realizzare un video community sulle note di Heal the world (Michael Jackson).

Il videoclip!

Fabrizio Amilcare, company owner di Miza, ci spiega che nonostante l’impatto Covid sia deleterio sotto l’aspetto lavorativo del settore musicale, passa in secondo piano rispetto alla sofferenza delle persone. “L’idea di questo video è nata di cuore –  ci racconta Fabrizio –  al solo fine di donare un messaggio di speranza e qualche minuto di spensieratezza a chiunque nel mondo”. A darci speranza non è solo il toccante testo di Michael Jackson, ma l’iniziativa stessa, una reazione positiva allo sconforto da parte di una delle categorie più colpite dall’emergenza in atto.

L’interprete protagonista della cover è il cantante Lenny Jay, conosciuto per la sua vocalità straordinariamente vicina a quella del Re del Pop, tanto da essergli valsa il riconoscimento da La Toya Jackson, quintogenita della famiglia Jackson. “Quando abbiamo conosciuto questo artista – racconta Fabrizio – ne siamo rimasti affascinati e abbiamo iniziato a collaborare. Il brano Heal the World si adattava perfettamente allo spirito del messaggio che volevamo trasmettere, il collegamento è stato istantaneo”. Per il video sono state coinvolte più di 150 persone dall’Italia all’India, Brasile, Argentina, Svizzera, Germania e persino Qatar. Hanno partecipato all’iniziativa anche il comico cabarettista Elio Angelini e il tatuatore da primato Alessandro Bonacorsi, in arte Alle Tattoo, vincitore di più di un Guinness World Record. Se c’è una cosa che la musica riesce a fare anche a distanza è proprio questo, dare forza e creare uno spazio di unione.

La produzione di questa nobile iniziativa ha richiesto un duro lavoro, giorni interi di full immersion di raccolta materiale e montaggio video che Miza ha affrontato con ardore, ma non sarà un’esperimento fine a se stesso, come ci spiega Fabrizio: “Questo video è il capostipite di una serie di progetti analoghi che verranno pubblicati su un canale YouTube dedicato”. Come potrete constatare dall’ascolto del brano, il risultato è di ottima qualità e in un mare di proposte che si trovano sul web, spesso deludenti, i contenuti che troveremo su questo canale promettono di essere meritevoli di attenzione.