Recensione: OTHERSIDE, il nuovo album dei FALLEN ANGELS

Una varietà così, in un disco rock, è difficile da trovare. Questa è la prima cosa che viene da scrivere ascoltando Otherside, l’ottimo secondo album dei veneti Fallen Angels (su etichetta Andromeda Relix). Che, dalla pagina Facebook fino ai testi, hanno un respiro chiaramente internazionale.

Ma questo aspetto lo dimostrano anche i brani contenuti nel lavoro. Al riuscito singolo rock Merchant in the middle si contrappongono i piani eltonjohniani di Woman e le chitarre acustiche della dolce An old man tells. Quello che resta sempre invariata è la qualità media dei pezzi.

Il video, girato da Francesco Indovino

Basterebbe ascoltare The Envy, ad esempio, per rendersi conto che il trio non scherza affatto! Gli assoli di Ste Wizard, poi, sono veramente ben riusciti. Difficile trovare band underground con una tale preparazione e gusto sotto questo profilo. E lo dico senza nulla togliere ad una sezione ritmica dovutamente quadrata, condotta dal batterista Luke Gyzz.

La voce di Matt Mattnant colora i brani con sfumature inusuali, come quelle pseudo-orientaleggiati del pezzo forse più prog dell’intero lotto: la lunga Desert Way. Ma, approposito di brani particolari, è impossibile non citare l’atmosferica Otherside, con chitarre sempre decise ma anche arpeggi distorti.

La band dei Fallen Angels

Difficile ormai anche trovare band giovani che puntino su 14 brani, un album a pieno titolo, e piuttosto intenso. Oggi la preferenza per i singoli sta facendo perdere la coesione di un’opera intera, e spesso il significato stesso di fare musica. Questo in Otherside viene preservato.

Succede anche nella variegata queeniana Pulcinella’s secret, in una Charming Rock più “sculettante” nel suo andamento rock’n’roll, o ancora in Monday in blood che, dopo una partenza acustica, si apre alle chitarre glam tanto amate dai Fallen Angels. Che però reinterpretano bene le influenze, spesso stupendo.

E scusate se è poco, nel 2021…

Sulle strade americane con JAY STOTT: WRECKAGE OF NOW convince

Quando ascolto dischi come questo mi sembra davvero di essere in America. C’è il sole caldo, la polvere delle strade più selvagge, gli spazi enormi attorno alle highways. Grazie a Jay Stott mi sembra di esserci stato, in un posto che purtroppo non ho ancora avuto modo di “toccare con mano”.

Dal rock-country di All Night Long al mid tempo subitaneo di Desert Heat tutto è al posto giusto: le chitarre surf, le batterie con la giusta dinamica, la vocalità vissuta di chi non vive di musica ma scrive pensieri su un block notes passando da una classe all’altra di una scuola dove insegna inglese.

Ci sono anche i pianoforti, che immagino su qualche legnoso pavimento di locali resi mitici dai film western. Li si trova in particolare in Can’t Stop Love, con un refrain che entra facile in testa. Jay è un uomo che ha fatto di tutto nella vita. Probabilmente un irrequieto, che nella musica trova l’equilibrio che cerca ogni uomo.

Un Electric Guy, come titola un suo brano, che sa suonare e cantare, e rendere al cuore di chi ascolta un po’ del proprio percorso. D’altronde non è questa una delle cose che vorremmo essere tutti in grado di fare? E allora su il bicchiere e, sempre parafrasando un brano, One Drink Two Drink. Cin Jay!

Le atmosfere gothiche degli ULVAND si sporcano di death metal nell’ep THE ORIGINS

Che sorpresa questi Ulvand! Con The Origins questi francesi dell’occitania riescono a toccare vette insperate. Sempre in bilico tra gothic e death metal, con una preminenza del primo genere, ammantano i brani di atmosfere oscure ma senza farsi mancare growl e riff pesanti. Autore dei growl è Serge, impegnato anche al basso.

Non manca però la parte dolce, melodica, incarnata dalla voce di Bèran. Che l’alternanza funzioni lo si capisci fin dalla prima traccia Human Zoo, ammantata di tastiere e arricchita da doppio pedale del programming di Wilfried. Ed è forse questo un aspetto critico: la batteria è sostituita da una drum machine, e questo si sente sopratutto a livello di pedale.

Il clip di Human Zoo

Questo aspetto però non toglie magia al risultato, nemmeno quando chitarra e batteria imbastiscono assieme interi sensi di brani (vedi Chrysalis). Non mancano nemmeno arpeggi e momenti scevri delle chitarre, e questa varietà dona ulteriore dinamicità ai pezzi. Che, in fondo, risultano tutti all’altezza.

Gli Ulvand, tirando le somme, si dimostrano band vera e in grado di condividere palchi con chiunque nel sottogenere gothic. Tra l’altro proprio i momenti più votati a questo genere sono quelli che mi hanno più coinvolto, ma ci tengo a specificare che pure nei momenti più estremi i nostri riescono a far quadrare tutto in modo molto dignitoso.

SECOND HAND MOJO: il nuovo singolo OPEN UP YOUR MIND non è di seconda mano!

I Second Hand Mojo sono diventati rapidamente noti a Detroit e nelle aree circostanti per il loro spettacolo, pieno di melodie originali che fanno ballare, ma ammantati anche di grande energia. Vern Springer (chitarrista) e Scott Brokaw (batterista) sono i fondatori, che hanno anche composto due brani del film “Driven to Ride”, documentario acclamato dalla critica.

Queste canzoni sono state eseguite con la loro popolare band di Detroit all’epoca, Day 41. Questo successo ha portato ad altre 5 canzoni l’inserimento nel documentario di Michelle Carpenter “Klocked: Women of Horsepower”, nel 2016. Per queste canzoni, Springer e Brokaw si sono uniti con il tastierista Dave Kimber e il famoso musicista gospel David Winans II.

Il teaser del singolo

Durante questo periodo, una serie di brani scritti da Springer si sono fatti strada anche sulle onde radio europee. Il perché si comprendere da Open Up Your Mind, nuovo singolo della band. Un lavoro eccelso: potente, trascinante, ricco di spunti. Innanzitutto le tastiere, che sostengono e ammantano il risultato di magia.

Ma funziona proprio la struttura, contornata da cori trascinanti e riusciti. Ma anche da riff di chitarra e fill intonati, e da una sezione ritmica coesa. Tecnica ok, quindi, ma è proprio la melodia che porta via, e si insinua nella testa, rimanendoci. Missione riuscita per i Second Hand Mojo!

IN THE TOMB OF A FORGOTTEN KING dei MONUMENTUM DAMNATI, tra doom ancestrale e melodie pachidermiche

Dopo un’intro atmosferica, ma potente, i Monumentum Damnati svelano le proprie carte, ovvero un metal che si muove sulla cortina del doom metal sinfonico, non rinunciando a sporcarsi in un fiume death metal. La verità, più complessa, è che il gruppo ha un’originalità difficile da definire con un solo genere.

D’altronde anche il progetto si cela bene, con i visi coperti da mascherone di sicuro impatto. Quel poco che si sa dello stesso è che si tratta di un ensemble internazionale e che i membri hanno nick non riconducibili a nomi reali. L’estetica, come detto, fa il resto, donando un’idea gotica, in linea con il risultato.

Non mancano però mai gli arpeggi e le parti più raccolte nei brani del gruppo. There’s no place for life ne è esempio lampante, con queste melodie lancinanti e profonde. Ma non è da meno Anabiosis, in cui la vocalità si fa ancor più sporca, e profonda. Ed è proprio la capacità di gravità dei Monumentum Damnati a fare la differenza con altri progetti.

Senza dimenticare le movenze sornione e minacciose di tanti momenti musicali, degne del miglior horror. Non aspettatevi assalti all’arma bianca in stile thrash, il progetto è nato con tutt’altre finalità, uccide lentamente, calpestando la speranza e ancheggiando in melodie eteree e subitanee, che non vi lasceranno subito.

ALIAS WAYNE fa centro con il terzo album FIREBRAND, nella polverosa America texana

Alias Wayne è un divertente progetto collaterale del cantautore Ranzel X Kendrick. Firebrand è il terzo album, o forse sarebbe meglio dire ep, che esce a nome Alias ​​Wayne, dopo Snafu (2019) e Faux Pas (2020). Una serie di pubblicazioni molto ravvicinate che mantengono inalterata una forza comunicativa, sotto forma di rock.

Sembra insomma che l’americano, figlio unico dei genitori della famiglia del Texas, abbia trovato una valvola di sfogo che, aggiungo, non è indifferente. Sorprende la freschezza del progetto nel proporre una musica che nasce proprio nella polvere di quei posti. Un country-rock che, specie in brani come Joan of Ottawa, dimostra di brillare.

La passione di Ranzel X Kendrick per la musica è iniziata nella scuola elementare quando il vincitore dei Grammy e la leggenda del Country Western Roger Miller ha iniziato a dare consigli sulla composizione. E anche in quest’album confluiscono chitarre soliste e vocalità calde, sezioni ritmiche semplici ma non semplicistiche.

I ritmi appena sghembi di Fixin to Die Rag sono solo un’altra variazione ad un tema riuscito. In cui entrano sì chitarre, ma anche tastiere. E la voce del nostro, ispirata. Alias Wayne ha fatto centro. Nel suo mondo, piccolo se volete, ma caratteristico.

Atmosfere leggiadre e retrò per MOOD SWINGS, l’ep di AMANDA. Che accarezza il pop senza vergogna.

Mood Swings parla di trovare conforto nei momenti spiacevoli, nutrendo quelle sensazioni che vorresti durassero per sempre. L’EP, composto di 6 canzoni, è creatura di Amanda. Ballate intrise d’amore guidate da voci mai sforzate caratterizzano il lavoro, con suoni che ricordano la fine degli anni ’80 e ’90. Una miscela Alt-Pop con una produzione di RnB che, infine, approda al mainstream pop.

Amanda non è una sconosciuta. Per rendersene conto ci sono i numeri su Spotify ma pure la sua storia. Nata in un piccolo villaggio nel nord dell’Inghilterra con una popolazione di non più di 50 residenti, Amanda ha trascorso tutta la sua infanzia nella fattoria di famiglia. Ora si trova a Los Angeles, ha firmato una società di produzione vincitrice del Grammy Award e ha collaborato con artisti e produttori dietro artisti come Ariana Grande, Beyonce, Justin Bieber, Alicia Keys e Chris Bro.

Un salto triplo carpiato, insomma, che trova ulteriore testimonianza tra le trame di questo ep, con atmosfere che fanno ambiente. La voce di Amanda vi si innesta con voci anche filtrate, a volte, ma in cui traspare sempre un grande controllo. E non si parla solamente di aspetto tecnico, ma proprio emozionale. Quindi un valore aggiunto, che a questo lavoro dà un senso. Seppure derivativo, valido.

Un ep di 1 brano da 20 minuti, tra atmosfere languide e funk: ecco AS IS di NAJEE JANEY

Si muove a passo leggiadro tra R&B e rap Najee Janey. L’amore per la musica gli è nato durante l’adolescenza mentre guardava suo padre suonare una vasta gamma di musica. La stessa che caratterizza la sua offerta: zouk, jazz, funk e latinX.

Il cantante, cantautore, rapper e poeta di Roxbury, sta appena iniziando a ritrovarsi musicalmente e sta spingendo il suo mestiere a nuovi livelli. Dopo aver ascoltato per la prima volta “Still Not a Player” di Big Pun, Najee si innamorò dell’onestà, della complessità e della cultura dell’hip-hop. Ed ecco quindi che ci ritroviamo all’inizio di questa recensione, in un melting pot vivace.

Se ne è accorto più di qualcuno, viste le due nomination ai Boston Music Awards (“Unsigned Artist of the Year e R&B Artist of the Year”). Questo ep è di fatto il vero esordio di questo artista. Che si muove in atmosfere languide, nell’unico brano presente ufficialmente nel lavoro.

Avete letto bene, As Is è un ep-singolo. Ma questo pezzo dura quasi venti minuti, con atmosfere comunque differenti, anche se non così tanto da shockare troppo l’ascoltatore. Al suo interno convivono sotto-brani. Ma in fondo la pelle a cui sono attaccati è sempre quella.

Il pop english style di DANIEL TORTOLEDO conquista nell’album DARK TIMES

Comincia con allegria il disco di Daniel Tortoledo. Ma non quell’allegria estiva e frivola, ma quella che poggia le sue ali leggere su un pop-rock convincente e sbarazzino. Quindi scordatevi i ritornelli latini che infestano le calde giornate italiche. Dovrete spostarvi, quantomeno mentalmente, in Usa, e non necessariamente a New York, dove vive il nostro cantautore moderno. L’allegria proviene dalla Venezuela, che scorre nel sangue di Tortoledo.

3.

Tortoledo passa con naturalezza tra chitarre e piano, dipende dal brano. Quel che è certo è che ogni canzone ha una forte correlazione con l’altra, a livello di suono. Oasis e Noel Gallagher sono i riferimenti più vicini. Esempio lampante è Not too late, con un incipit chitarra-acustica e voce, prima che i fill la aprano come un melone, permettendo all’ascoltatore di succhiarne un succo di buon gusto.

Molto curata e leggiadra Intermission, quarta canzone, caratterizzata da un piano vivace ma atmosferico. Un interludio per Through out these years, brano che continua sulla falsariga, con una batteria sottile e poco invasiva, che però ritma il risultato. Più rock oriented Bottle of wine ed Eloise, con accordi pieni ed effetti tarati con amplificatori valvolari.

L’andamento è spesso molto english, in realtà. Lo si capisce anche in Spare time, con quel ride e i quattro quarti obnubilati con dinamicità. Piace il sound, piacciono i brani. Non sarà un disco indimenticabile, forse, ma una parabola alla Travis il nostro la potrebbe fare.

E scusate se è poco.

I KAYLETH e i deserti emotivi di 2020 BACK TO EARTH

di Francesco Bommartini

Questo è probabilmente il miglior album dei Kayleth. Non lo dico per partito preso, avendo sentito anche i precedenti. Lo dico perché le canzoni sono qualitativamente valide e perché, ed è importante, la produzione le valorizza. E scusate se è poco, in un genere, lo stoner, in cui le chitarre devono essere fangose al punto giusto e la sezione ritmica pulsante.

E’ esattamente quello che succede, e che si può gustare in tutti i brani, e segnalo By Your Side che incarna bene quanto detto. Il rullante ficca in testa le intelaiature create dalle chitarra, inspessite da un basso distorto e già di per sì chiare nel loro rifframa. Ma non è tutto qui, visto che non mancano innesti di tastiera che donano al risultato più ariosità.

Di pari passo vanno gli assoli, sensati nel contesto generale. La voce svetta senza essere però preponderante nell’economia del sound. E non è un male perché, lo dico, una voce ci sta, e quella di Enrico Gastaldo è anche abbastanza significativa, ma il troppo stroppierebbe. E invece non lo fa perché l’equilibrio raggiunto da questi veronesi ha una storia.

Che nella mia mente parte dalle prime voci su di loro, diradate ma presenti nel sottobosco veronese, per poi palesarsi in un concerto al Porky’s di oltre dieci anni fa. Con poche anime, tanta disattenzione del pubblico. Insomma, le durezze della vita da rocker di provincia. Che non solo non hanno scalfito i Kayleth, ma li hanno resi più forti.

Argonauta Records si è accorta della loro bravura e della personalità. E ha fatto bene a crederci perché se le vendite non sono mai state un termine di paragone pieno – così come non lo dovrebbero essere a prescindere somiglianze con Kyus e dintorni – lo è invece la qualità, testimoniata da pezzi intensi (The Avalache e Concrete su tutti).

Bravi!