intervista con PATRICK DJIVAS (PFM): “Il mestiere del musicista è in crisi. De andre’ voleva smettere prima dei concerti insieme. La tv uccide la nostra arte, e i talent…”

di Francesco Bommartini

Sabato 19 settembre sera alle 21 la Pfm, gruppo rilevante del progressive rock italiano e mondiale, suonerà a Cerea (VR), nello spazio dell’Area Exp (acquista il biglietto).

Per celebrare quest’occasione tutt’altro che comune ho deciso di contattare Patrick Djivas, bassista del gruppo dagli anni ’70. Ne è nata una lunga chiacchierata piena di spunti, veramente interessanti. Di seguito è possibile ascoltare l’audio, a seguire la trascrizione.

L’audio intervista con Patrick Djivas

Partirei dal live che farete a Cerea, nel sud veronese: cosa devono aspettarsi i fan da questo TVB – The Very Best Tour?

Si devono aspettare intanto una carrellata della storia della PFM. Partendo anche da pezzi dell’inizio, ovviamente non tutte le tappe, altrimenti il concerto durerebbe 8 ore. Una carrellata abbastanza significativa del lavoro che abbiamo fatto. Compreso anche parti di PFM in Classic, compreso anche qualche brano di Fabrizio. Insomma, la storia della PFM.

Quasi in toto…

Esatto. Tutto tutto no, perché sarebbe veramente difficile. Però con molti episodi che hanno costellato la nostra storia.

Quanto prevedete di suonare?

Di solito suoniamo due ore, due ore e un quarto.

Cosa è rimasto fuori dalla raccolta “The Very Best” e come è avvenuta la selezione?

Considerando che abbiamo fatto una ventina di album, ovviamente c’è molta roba che rimane fuori. Di solito facciamo le cose che il pubblico ama sentire. Che comunque ci rappresentano moltissimo, quindi ci sono certi brani che non possiamo non fare. Però ci sono anche delle cose un po’ particolari, come ti dicevo: PFM in Classic, facciamo anche delle cose di Fabrizio, facciamo qualche cosa della Buona Novella, che è molto forte musicalmente. E quindi c’è un po’ di tutto. Sempre con questa mentalità di rendere ogni concerto un evento abbastanza unico perché, sai, la PFM non è mai esattamente nelle stesso modo. La nostra fortuna è che tanti anni fa abbiamo deciso (ma non per un fatto di snobismo, ma per non voler essere fagocitati in una situazione) di non utilizzare i computer. Questo per darci un po’ più di libertà, per permetterci di allungare, di accorciare. È un po’ la nostra mentalità, noi abbiamo fatto circa 6000 concentri da quando abbiamo cominciato ed è ovvio che fare 6000 concerti tutti uguali sarebbe una cosa da diventare matti. Quindi abbiamo questo approccio molto, molto libero ai brani. Non so quante volte ho suonato Celebration, ma mai due volte uguale. Credo che questo valga un po’ per tutti, nel senso che è quello che ci fa rimanere vivi sul palco, con la voglia di suonare. Poi ogni tanto viene bene, ogni tanto un po’ meno, però la gente gode sempre del fatto che ogni cosa sembra fatta, non dico, per la prima volta ma…

Spontanea.

Sì, che ci piace fare con l’appoggio del momento, che non sia un vecchio brano rivisitato e fatto mille volte sempre nello stesso modo, perché tanto lo conosciamo a memoria. Ecco questo non appartiene alla PFM come modo di fare.

La mia curiosità resta sulla selezione. Nel senso che mi piacerebbe capire, nel momento in cui c’è stata la scelta di fare questa grande compilation, cosa avete fatto? Vi siete trovati tutti, c’è qualcuno che ha selezionato più di altri?

Sai, le selezioni di solito sono quasi automatiche. Come avviene con le scalette dei concerti. Ogni volta che facciamo le scalette cerchiamo di metterci dalla parte del pubblico. Non siamo di quelli che dicono “ah io quel brano lì non lo voglio più suonare”. Perché se il pubblico se lo aspetta e vuole sentire quel brano lì, glielo facciamo. Magari in modo diverso, un po’ particolare, modificando sia l’arrangiamento che le proprie parti personali.

Scusa se ti interrompo, ma io intendevo la compilation sotto forma discografica.

Quello è lo stesso discorso. È un discorso che arriva dai concerti, da quello che succede dal vivo. Franz (Di Cioccio) è sempre stato quello che faceva le scalette, ha sempre avuto questo pallino da quando abbiamo cominciato. A lui piace molto fare questa cosa qua, poi ne parliamo tra di noi e ognuno dice la sua. Però anche nei dischi Franz tiene molto alla scaletta, è uno che sta molto attento a queste cose. Magari io un po’ meno, perché ho un approccio più da musicista, tradizionale. A me interessa di più suonare, non mi interesso a certe cose. È questo il bello di essere in un gruppo: ognuno ha un suo ruolo. Questo avviene nella PFM sia per le situazioni di tutti i giorni sia musicalmente. La PFM è stato sempre un gruppo con musicisti completamente diversi tra di loro. In un gruppo hard rock ci sono 4 musicisti che suonano hard rock, che sono nati con l’hard rock e moriranno con l’hard rock. Invece la PFM no: ha un musicista che è arrivato dal rock, uno che arriva dal jazz, uno che arriva dalla musica classica, ognuno ha il suo mondo, in cui è nato. E bene o male quel mondo te lo porti dietro per tutta la vita. Diventa un po’ la tua specialità, anche se ovviamente essendo un musicista da tantissimi anni, hai una evoluzione, acquisisci esperienza. Però la tua partenza rimarrà per tutta la vita ed è una cosa molto bella della PFM, questa. Ed è quello che ci ha permesso di fare il lavoro di Fabrizio per esempio. Perché c’è molta ecletticità, perché ogni musicista ha un bagaglio suo che mette a disposizione del gruppo e la cosa bella è che ognuno ha il totale rispetto dell’altro. Non esiste il musicista più debole nella PFM, non esiste quello che ha meno voce. Ognuno ha il suo strumento e ognuno ha la stessa voce di un altro.

Democrazia soprattutto.

È una democrazia che si basa sul rispetto mutuo, l’uno dell’altro. Soprattutto all’inizio della PFM, questa è una cosa che mi ha colpito molto quando sono entrato. Arrivavo dagli Area ed ero più improntato, come mia natura, sul rhythm and blues e dal jazz. Che erano i miei due pallini e lo sono tutt’ora. E quando sono entrato nella PFM sono stato molto sorpreso da come loro si sono aperti totalmente ai miei modi di vedere e come io sono riuscito subito a dare un mio contributo dal punto di vista musicale, non stravolgendo assolutamente quello che ero. Anzi loro volevano questa cosa qua, ed è una cosa bella. Ed è quello che ci ha permesso di fare PFM in Classic, che ci ha permesso di fare Jet Lag, che ci ha permesso di fare il lavoro con Fabrizio che è completamente diverso, è una musica che non so nemmeno come definire. Ci ha permesso di fare degli scatti di immaginazione, perché è una musica molto minimalista in certi punti ed è addirittura free rock in altri. Quindi spazia a 360°. Questa è la cosa bella della PFM e questo avviene perché ogni musicista ha la sua personalità e non ci rinuncia, e ognuno ha il totale rispetto di quello che fa l’altro.

L’hai citato prima: De André. PFM suona De André, cosa ti ricordi del concerto ritrovato, che è stato pubblicato quest’anno?

Sai queste cose sono strane perché, quando le fai, non sai cosa succederà. Non immaginavamo all’epoca, quando abbiamo fatto questa proposta a Fabrizio, che poi si è concretizzata appunto con un concerto, anzi con 40 concerti che abbiamo fatto insieme più o meno, che avrebbe avuto questa portata. È quasi di cultura in Italia perché è diventato un evento enorme e non immaginavamo che questa cosa sarebbe stata così. Quindi noi l’abbiamo vissuta molto più serenamente, cioè molto più tranquillamente, senza sentire la responsabilità di fare qualche cosa che avrebbe forse cambiato la vita a tante persone. Perché Fabrizio aveva deciso di smettere in questo mestiere. Abbiamo fatto il lavoro insieme perché lui si è buttato a fare questa cosa ma quasi come ultimo… invece l’ha cambiato completamente, ha cambiato la persona perché lui si è reso conto in quel momento che aveva ancora tantissimo da dire, che non aveva ancora detto. Che era tutta la parte musicale. Poi lui era veramente bravo perché, dopo tutto il lavoro che abbiamo fatto insieme, ha fatto dei dischi estremamente importanti, con delle produzioni importanti che non hanno niente a che vedere con le produzioni normali di cantautori. Ma chi poteva dirlo? Sai, noi abbiamo fatto la proposta e lui dopo un po’ l’ha accettata. Il mondo intero italiano diceva che era una cosa assurda, che non avrebbe mai funzionato, nessuno lo voleva fare. Ma poi Fabrizio si è incaponito, lo voleva fare e alla fine si è fatto. Ma nessuno immaginava che avrebbe avuto questa portata.

Sono qua che sto sorridendo mentre mi dici queste cose perché comunque, effettivamente, anche i lavori che De André ha fatto dopo quel ’79 sono cose che rimangono. Come anche le cose che ha fatto prima, per carità, però con una capacità musicale, con una visione musicale diversa…

Con una completezza. È diventato lì l’artista a 360°. Adesso, non per denigrare qualcuno, perché per carità ci sono tanti altri artisti fantastici (all’inizio ho suonato anche con Lucio Dalla), ma credo che Fabrizio sia il più grande di tutti, in assoluto. Una produzione così importante, con brani così importanti che attraversano i decenni come se nulla fosse, perché quei dischi che abbiamo fatto insieme nel ’79 li ascolti oggi e…

Trasmettono ancora pienamente, cioè riescono ad essere opere immortali.

Sì esatto, perché sono testi, musiche, arrangiamenti, modi di suonare che non hanno età. Non sono legati ad un genere, non sono legati ad una situazione particolare, sono musica totale. Testi e poesia totale. E che tra parecchi decenni saranno ancora lì. Perché i giovani li scopriranno sempre. È stata senz’altro una cosa molto importante per noi, ma come tante altre cose. Per esempio, PFM in Classic è stato per noi fondamentale come esperienza perché, come sempre, abbiamo fatto un’esperienza che non era la solita che fanno gli artisti rock con la musica classica. Di solito cosa si fa? Si prende un pezzo di Mozart, o di Beethoven oppure di altri autori, e si suona con l’organo o con le chitarre etc. Noi non abbiamo fatto questo, questo è troppo facile da fare. Senza nulla togliere, ma per esempio Pictures at an Exhibition di Emerson, Lake e Palmer: hanno preso musica e l’hanno fatta moderna. Però non è tanto difficile fare questo. Quello che abbiamo fatto noi è completamente diverso: abbiamo preso la sinfonica che suonava esattamente la musica originale. Quindi suonava per esempio la musica di Beethoven, ah Beethoven non c’è perché non siamo riusciti a farlo con lui perché è talmente completo nelle sue cose che non puoi aggiungere niente. Ma per esempio Mozart, l’orchestra suona esattamente la partitura originale, e noi abbiamo aggiunto quello che forse Mozart avrebbe aggiunto se avesse avuto la PFM. Quindi abbiamo creato musica nuova all’interno della musica creata da Mozart. Ci vogliono i pazzi per fare questa cosa qua. Eppure l’abbiamo fatta, è stato uno dei lavori che ci ha preso di più in assoluto perché è molto complicato da fare. Però ci piaceva questa idea di inserirci all’interno di un pezzo di musica classica, immaginando che cosa avrebbe fatto l’artista se avesse avuto la PFM, che cosa le avrebbe fatto fare, se ci fosse stata la chitarra elettrica, l’organo.

È un’attualizzazione completa di qualcosa che è stato fatto prima ma che viene comunque rivisitato in un’ottica…

Viene quasi riscritta perché abbiamo aggiunto delle cose. Non è cambiata, non abbiamo modificato niente, abbiamo solo aggiunto. Per esempio, il brano parte con un pezzo di Mozart e comincia con un assolo di basso. Probabilmente a Mozart sarebbe piaciuto perché era pazzo più di noi. Ma è stata una cosa molto azzardata, invece secondo me, e non solo secondo noi, ma anche da un punto di vista di critica (noi eravamo preoccupati da cosa avrebbe detto il mondo della musica classica) abbiamo avuto delle soddisfazioni enormi sotto questo aspetto.

Non stento a crederlo. Dopo Emotional Tattoos avete qualcos’altro che bolle in pentola, di completamente nuovo?

Certo, assolutamente. Domani io sono in studio di registrazione. Stiamo facendo il disco nuovo, siamo già a buon punto.

Qualche anteprima?

L’unica anticipazione è che non c’è niente di nuovo e che è un disco completamente diverso da tutti gli altri.

Quindi è tutto nuovo?

Tutto nuovo assolutamente. Ma non solo i brani, ma proprio l’approccio, il modo di suonare, i suoni, come abbiamo sempre fatto. Non abbiamo mai fatto dischi uguali a parte i primi due che si assomigliavano abbastanza. Ma da quando sono entrato io nel ’73 non abbiamo più fatto un disco uguale ad un altro.

Siete veramente progressivi.

Progressivi nel senso che andiamo avanti. Fondamentalmente noi siamo musicisti e quindi in partenza quello che cerchiamo di fare è divertirci. Per avere un certo tipo di resa, questo non vale solo per la musica ma per qualsiasi cosa nella vita, per qualsiasi mestiere o attività, si deve fare il massimo che sei in grado di fare, non ci sono storie. Non è che, cercando di risparmiare le forze o le energie oppure il tempo, tu riesci a fare delle gran cose. Mai. Quando tu ti impegni a fondo su ogni cosa, e questo la PFM l’ha sempre fatto su ogni nota. Non abbiamo mai lesinato su queste cose. Il lavoro con Fabrizio si basa su queste cose perché lui faceva la stessa cosa con i suoi testi, e noi l’abbiamo fatto con gli arrangiamenti, le note, gli accordi. Abbiamo lavorato finché ogni nota non poteva essere modificata. Finché non eravamo sicuri che quella era la nota giusta. Abbiamo sempre avuto questo tipo di approccio, abbiamo sempre avuto questa mentalità e questo ci ha permesso sempre di metterci alla prova, ma nemmeno questo, perché non è un discorso di vedere se sono in grado di fare questo. Ho 73 anni, che me ne frega di quello che sono in grado di fare. È una mentalità, è un modo di essere, se tu sei così sei così per tutta la vita, è un’indole e diventa una regola di vita che tu applichi a qualsiasi cosa che fai.

Spingere sull’acceleratore il più possibile per dare il meglio.

Si, per dare il meglio di quello che sei in grado di fare. Questa è la cosa importante, non è tanto dare il massimo: dare il massimo non vuol dire niente. Cos’è il massimo? C’è il mio massimo, il tuo massimo, il massimo di qualcun altro. Quello che esiste è il tuo limite e se tu sei sempre al tuo limite questo prima o poi si alza. È una specie di scala che piano piano si alza, l’esperienza diventa costruttiva. È per questo che ogni disco è completamente diverso. Perché per noi sarebbe impossibile fare un disco che assomiglia a quello che abbiamo fatto prima perché magari ha avuto successo. In America l’establishment diceva che la PFM sarebbe diventata uno dei più grossi gruppi al mondo perché facevamo tournée, la gente impazziva ai concerti, etc… Ma noi cosa abbiamo fatto? Abbiamo fatto un disco di jazz, che è Jet Lag, e ci siamo tagliati le gambe da soli praticamente. Dal punto di vista commerciale non è la migliore cosa da fare. Però noi volevamo fare quello, perché in America eravamo molto a contatto con il mondo del rock jazz, per esempio Zappa. Eravamo molto amici di queste persone, ci suonavamo insieme, ed eravamo influenzati, e volevamo suonare queste cose qua. Non abbiamo pensato a fare qualcosa che assomigliasse a ciò che funzionava bene. La cosa importante è che tu fai le cose che ti piace fare, che vuoi fare. In questo forse ci abbiamo rimesso perché non siamo diventati uno dei più grandi gruppi al mondo come diceva l’establishment americano. Però a distanza di 35 anni siamo ancora qua.

Sì e avete anche ricevuto molti premi, anche recentemente, anche dall’estero, dal Regno Unito stesso.

Siamo stati votati gruppo internazionale dell’anno nel 2018, mi sembra, proprio in Inghilterra. Siamo arrivati al 49° posto dei 100 artisti più importanti di tutti i tempi. Abbiamo avuto grossissime soddisfazioni sotto questo aspetto. A parte il fatto che noi apparteniamo alla periferia dell’impero perché non siamo né americani né inglesi. Ed è proprio difficile per un fatto tecnico, perché tu non abiti in America o in Inghilterra. Tu sei in Italia quindi qualsiasi cosa fai la devi fare esattamente come quando loro vengono in Italia, che non è una cosa che appartiene al loro mondo. Come facevamo a lasciare tutto e ad andare a vivere in America o in Inghilterra? Come avremmo dovuto fare per raggiungere certi risultati? Ci saremmo arrivati di sicuro perché avevamo l’appoggio di tutti, dei critici, del pubblico, dei discografici, delle televisioni. Al “The Old Grey Whistle Test” che era uno show in Inghilterra all’epoca estremamente importante, dove erano passati tutti, Beatles, Rolling Stones, la prima volta che dovevano andare in diretta, perché è sempre stata registrata (e tra l’altro avevano una situazione di registrazione straordinaria, sembrava uno studio di registrazione di serie A e quindi la qualità del suono che c’era in quelle riprese era strabiliante) hanno scelto la PFM. Questa è una cosa che nessuno sa ma per noi è stata una grande soddisfazione. Hanno scelto noi perché, suppongo, che con noi erano tranquilli, che le cose sarebbero andate bene. Infatti sono andate benissimo e abbiamo avuto una soddisfazione incredibile. C’era questo presentatore che aveva questi modi di fare e questo modo di parlare, a voce bassa, molto molto pacata. Anche quando presentava i gruppi di hard rock, le cose più tremende, più potenti del mondo, lui aveva sempre questo modo molto british e non faceva mai un commento. Lui presentava e basta, mai un commento. Quella volta quando abbiamo fatto la nostra composizione perché ci avevano detto che doveva durare 9 minuti, lui aveva fatto questo gesto che il giorno dopo era su tutti i giornali, perché non aveva mai fatto un commento, né positivo, né negativo. questa è stata una grandissima soddisfazione ed è stata la volta in cui era in diretta per la prima volta. Eravamo molto felici perché era andata bene. Sai, noi all’epoca facevamo 300 concerti all’anno, perché in Italia facevamo pomeriggio e sera. Facevamo due concerti al giorno per tutta l’estate, e poi facevamo la tournée americana che di solito si componeva di almeno 80 concerti, perché ci sono tutta una serie di spese che devi ammortizzare in un certo modo. Quindi noi suonavamo molto nelle università. Facevamo una tournée americana, una tournée europea e una tournée asiatica. All’epoca non suonavamo ancora in Sudamerica. Quindi facevamo tranquillamente 300 concerti all’anno. Avevamo una forma fisica che era… l’anno scorso abbiamo fatto 109 concerti ed è una cosa che per oggi è una specie di record.

109 nel 2019 equivalgono ai 300 nel passato.

Esattamente, noi all’epoca ne facevamo di più perché avevamo la forma fisica, eravamo ragazzini.

Credo che questa trasversalità che vi portate dietro, anche fra Italia ed estero, il fatto che siate piaciuti nel tempo e abbiate mantenuto probabilmente una credibilità profondo nei confronti del pubblico nonostante i continui cambiamenti a livello discografico. Però appunto c’è questa credibilità che poi traspare anche dalle tue parole e che quindi vi permette ancora oggi di girare molto. Giusto?

Bene o male se vai a vedere la PFM sei abbastanza sicuro che non sarai deluso. Troverai anche qualcosa di diverso dal solito, anche se ci hai visto centinaia di volte. Un giorno faremo un concorso e daremo una medaglia chi ci ha visto di più perché c’è gente che ci ho visto non so quante volte. Eppure questa gente dice di non stancarsi mai, che è sempre diverso e questa è la cosa più interessante del nostro mestiere. Ed è quello che ci permette di andare avanti dopo tutti questi anni senza perdere entusiasmo.

Tra l’altro mi permetto di dire, allacciandomi al discorso che facevi prima, sull’impero inteso come britannico e americano, che in realtà anche all’interno dell’Italia ci sono delle città che hanno dei vantaggi dal punto di visto dei contatti musicali e del music business. Mi vengono in mente Milano e Roma, soprattutto. Magari ci sono città, come Verona dove vivo io, in cui se nasci lì e vivi lì magari fai più fatica.

Questo è un po’ un male dei tempi. Questo succede dappertutto, anche in America, in Inghilterra: se sei di Sheffield non avrai mai le stesse possibilità di uno di Londra o di Liverpool. La stessa cosa vale in Francia. Io sono francese, abitavo a Nizza dove ho iniziato a lavorare e non c’era niente, si doveva andare a Parigi. Però la differenza è che all’epoca io ho preso le mie cose sono andato a Parigi. Questa è la differenza che c’è con oggi. Oggi, perché le cose sono cambiate, non so se sia diventato più facile o più difficile vivere. C’è chi dice che prima era molto più facile, ma io ti posso garantire che ho fatto sei mesi di fame pazzesca a Parigi, mangiavo un giorno sì e tre no.

Posso portare il punto di vista dei miei coetanei: c’è stata una liberalizzazione del viaggio, inteso proprio come spostamento, perché gli aerei costano di meno però ci vuole comunque… Però se ti sposti a Londra il costo della vita è di un certo tipo, di solito o hai la possibilità oppure facendo altri lavori… Però penso che anche all’epoca fosse così, più o meno.

Ma certo, non c’è stata un’epoca d’oro in cui tutto era facile per il musicista. Almeno quando abbiamo cominciato, non solo io ma anche i ragazzi, come Franz, è stata un’era assolutamente facile, assolutamente. È chiaro che c’era meno gente, che c’era meno concorrenza. Però, sai, non avevamo nessun tipo di formazione, non c’erano scuole, non c’erano metodi. Per suonare dovevi inventarti le cose più assurde, ascoltare più musica possibile, cercare di tirare fuori le parti dai dischi, che non era facile perché all’epoca potevi mandare un 45 giri a 33 giri per rallentarlo e cercare di capire, però andava un’ottava sotto e non capivi più niente. Non era come oggi che invece puoi fare quello che vuoi con il computer.

Può essere che gli sforzi di cui parlavi prima hanno nobilitato anche la professione.

Il risultato è stato che all’epoca, proprio il fatto che il tuo interesse per la musica, per le musiche, perché si ascoltava qualsiasi cosa, qualsiasi cosa era un’informazione, qualsiasi situazione ti insegnava qualche cosa. Io mi ricordo che ascoltavo Amália Rodrigues, che era la cantante del Fado, portoghese, bravissima. Ascoltavo Trini Lopez, che era uno che faceva una musica strana. Poi ovviamente ascoltavo i Beatles. Ogni cosa era una sorgente di informazioni. Il risultato è che imparavi ad essere musicista prima di essere strumentista perché avevi un approccio molto musicale. Lo strumento era complicato perché non c’era nessuno che ti insegnava come utilizzarlo, dovevi farlo da solo e chiaramente perdevi più tempo. Mentre adesso è esattamente il contrario. Adesso il ragazzino che inizia a suonare, che va a scuola, in 6 mesi fa le scale, le cose.

Ma anche con internet, con YouTube ci sono le cose…

Trovi mille informazioni, che ti insegnano tutti i trucchi, però diventi strumentista prima di diventare musicista.

Stavo proprio pensando a questo, al fatto che avere tutte queste basi e queste possibilità oggi possa diventare quasi un vincolo eccessivo per l’aspetto creativo e di ricerca, intesa come la intendi tu.

In un modo diverso, anche perché oggi ci sono ragazzi fantastici nella ricerca, nella creatività. Però la maggioranza oggi lavora in quel modo. Lavora sullo strumento prima di lavorare sulla musica. Quindi questi saranno i musicisti che faranno delle gran scale per tutta la vita, delle cose molto veloci ma difficilmente troveranno la loro strada.

Come abbracciate voi lo streaming digitale e che idea ti sei fatto tu sulle attuali dinamiche del music business? C’è qualcosa che cambiato e che ti dà fastidio magari?

A me tendenzialmente non dà fastidio nulla perché il mio percorso musicale già l’ho fatto. Sono molto preoccupato però per il futuro dei musicisti di oggi. Sinceramente 40 anni fa se tu mi chiedevi: “incoraggeresti un figlio a diventare musicista?”. Io ti avrei risposto di sì, senza dubbio perché è un mestiere meraviglioso, perché ti insegna ad organizzare la tua fantasia, e poi potevi vivere, magari non diventavi ricchissimo però potevi viverne. Oggi invece gli direi di fare il musicista per divertirsi, non di farne un mestiere. Perché è un mestiere che non esiste più questo.

Lo farei anche io per il giornalista.

Il mondo digitale ha un po’ stravolto tutto. Chiaramente non si può dire che sia meglio o peggio, è diverso. È completamente diverso. È un po’ come i ciabattai, non esistono più. Ci sono un sacco di mestieri che non esistono più, ma questo non vuol dire che dovrebbero esistere. È così, è l’andamento delle cose. È ovvio che per chi ha vissuto un determinato periodo ci siano delle mancanze oggi, soprattutto per chi deve fare questo mestiere. Che poi è quello che succede con lo streaming, su Youtube per esempio prendi lo 0,000001 ad ogni passaggio, che è praticamente il niente, il nulla. Infatti se tu guardi a quello che sta succedendo al mondo della musica, il 95% dei musicisti vive dando lezioni. I musicisti si dividono in due categorie adesso: quelli che imparano e quelli che insegnano.

E poi magari suonano col gruppo perché vorrebbero farlo diventare un lavoro.

In realtà non funzionano nemmeno più i gruppi, da un punto di vista professionale sto dicendo, perché poi per divertimento, per carità, tutto funziona ancora come prima, con la passione. Ma anche le cover band non funzionano più, per esempio vai in un locale per suonare e la prima cosa che ti chiedono è quanta gente sei in grado di portare.

Sentito dire da uno della PFM fa un po’ specie…

Ma è così. Noi abbiamo molti rapporti con ragazzi che ci vengono a parlare. Le cover band una volta funzionavano, 15 anni fa, 20 anni fa, c’era un certo giro. Suonavano tutti i weekend, riuscivano a vivere in qualche modo. Se tu non porti gente ai locali non ti pagano, ti pagano in rapporto a quanta gente porti.

Non è sostenibile. Io ho sempre detto, nel mio piccolo, nelle mie esperienze personali a livello musicale, che tu come band offri un minimo di servizio, e per quanto poco ti diano, anche nell’ordine, per le band emergenti, di poche centinaia di euro, deve essere comunque garantito. Non può essere un cappio al collo il discorso di quanta gente mi porti, per poi andare a prendere quello che ti spetta a fine serata e sentirti dire “sì c’è la gente ma non ha bevuto abbastanza”.

Questa cosa deriva dal fatto che la musica è diventata gratis, su internet è gratis, ormai è tutto gratis.

Questa gratuità come concetto che forse ha rovinato una serie di cose anche a livello musicale.

Ha portato tanti altri benefici. Cioè, le cose si modificheranno, non so come. Io spero che questo mestiere riesca a stare in piedi. Questa è la cosa preoccupante. Perché, sai, ci sarà comunque una selezione sempre più importante e chi riuscirà a vivere e a campare di musica saranno sempre di meno. E saranno sempre quelli più bravi, quelli che ci mettono meno tempo a fare, quelli che costano meno. Ma questo è preoccupante perché può anche darsi che si arrivi ad un punto in cui il mestiere… Non sparirà mai perché c’è la passione per la musica, per suonare. Io ricordo che quando ho iniziato a suonare vivevo solo per quello. Non avevo nessun altro interesse, pensavo solo a quello, 24 ore su 24. È una passione che ti prende ed è più forte di qualsiasi cosa. All’epoca quando cominciavi tutto poteva succedere, ma non immaginavi mai di guadagnare, di riuscire a vivere di questo mestiere. Io non ci ho mai pensato, e poi alla meglio tu immaginavi di fare il musicista finché non andavi al militare o ti sposavi. Poi finito. Forse per quello che io non mi sono mai sposato e non ho neanche fatto il militare.

Anche oggi, sembra che sia tutto libero, però rimangono questo tipo di riferimenti…

Oggi però è un po’ normale. Come fai a prenderti la responsabilità di avere una famiglia, magari un figlio, avere delle spese se fai il musicista? Basta guardare cosa è successo con il COVID-19, perché in assoluto i musicisti e il mondo dello spettacolo sono la categoria più massacrata.

Tra l’altro ti dico questo, che è venuto fuori da altre interviste nel corso degli anni. Io vedo sempre di più che i gruppi e gli artisti sono tantissimi, sarà anche che con internet si ha più visibilità, magari ce n’erano anche prima così tanti ma si vedevano di meno, si mostravano di meno. Pare quasi, oggi, che pur essendo i soldi sempre meno in questo settore, gli artisti vanno nella direzione opposta, cioè aumentano. Magari si impegnano anche molto ma vengono ripagati in visibilità, ma che è una visibilità caduca perché si parla di milioni e milioni di artisti che sono su Spotify, quindi alla fine non è una visibilità effettiva. Diminuiscono i soldi, aumenta la visibilità e aumentano gli artisti. Mi sembra un controsenso.

Per quanto tempo faranno l’artista? In Italia le uniche cose vengono fuori sono quelle che vengono fuori dalla televisione. Da X-Factor per esempio. Se però ti fai i conti, quanti sono rimasti, quanti hanno tenuto?

Due più o meno.

Questo è per quello che dicevi. Perché tutto e subito, però dura quello che dura perché non ha sostanza.

Infatti nei talent quando esci di solito ti mandano a fare, se hai avuto un buon piazzamento, il firma copie nei centri commerciali, pieni di gente. Poi ad un certo punto vengono messi da parte e magari vanno dallo psicologo perché non ci stanno dentro, perché sono passati dalle luci dei riflettori al buio.

Esattamente quello che sta succedendo oggi e poi ci sono altri fattori. Il pubblico, non dimentichiamo questa cosa, di queste trasmissioni è un pubblico giovanissimo e molto di questo pubblico non esce la sera e non va ai concerti. Ha 14 anni, la gente ha paura di mandarli ai concerti. E quindi tu vedi delle cose che hanno un risvolto discografico importante, poi vai ai concerti: “tournée cancellata”, perché il pubblico è poco. Il loro pubblico è troppo giovane per andare ai concerti. È una situazione paradossale però è così, è un cambiamento tutto questo, perché è avvenuto talmente velocemente, da un giorno all’altro. Internet che è nato un po’ zoppicante, non si capiva e poi è esploso in un modo talmente incredibile, ed è stata una cosa stravolgente che nemmeno un autore di fantascienza avrebbe potuto immaginare.

Dal Grande Fratello in poi, perché internet in Italia si è iniziato a caricare in contemporanea con quella trasmissione, che sembrava orwelliana almeno nel titolo. Da lì è iniziato ad essere un declino dal punto di vista del pubblico, non c’è un ricambio generazionale. Io sono dell’83, diciamo che gli ultimi che vanno ai concerti sempre più rari hanno sopra i 25 anni, per stare bassi.

Andrà sempre avanti questa storia. C’è anche da dire che l’Italia è uno dei paesi più difficili, nel senso che in Inghilterra per esempio si suona molto di più, ci sono molti più locali. Magari non sono grandi cose ma riesci ad essere musicista. Anche in Francia è lo stesso.

In Germania non ne parliamo, è ancora meglio, sono esplosi generi come l’heavy metal, l’hard rock.

L’Italia è particolarmente massacrata anche perché la situazione in Italia è esclusivamente legata alla televisione. Internet ha dato la botta finale, ma la botta grossa l’ha data la televisione che si è accaparrata la musica. La televisione ha preso la musica e l’ha fatta diventare delle trasmissioni televisive. La musica non è più trattata come una arte a sé ma come una trasmissione televisiva. La nostra storia musicale è attraverso la televisione. X-Factor, Amici, Sanremo e via dicendo.

Si può dire che i talent siano una bolla che ha portato un pubblico intero, soprattutto una generazione giovane, ad interpretare la musica in una certa maniera e di conseguenza anche a non dare il ricambio generazionale che dicevo prima, ai live. Ai live inteso come live rock, diciamo di musica che non è prettamente mainstream, quindi non ricalca una serie di situazioni che servono nei talent.

Perché sono trasmissione televisive e non gliene frega nulla della musica. Hanno dei parametri molto precisi da seguire, altrimenti la gente non li guarda. Questi parametri vanno seguiti. Io ho lavorato parecchio per la televisione, nei periodi in cui facevo le sigle, queste cose qui, sono diabolici i ragionamenti che fa la televisione. Quando abbiamo fatto la sigla del TG5, ci hanno dato un papiro di 15 pagine, di quello che volevano, dovevamo dire questo, fare questo, pensare questo, e doveva durare 7 secondi. La televisione però pensa tutto, non c’è niente a caso, niente, è tutto pensato e ragionato. È tutto falso e pilotato. Quindi le cose non potevano che andare in questo modo. E poi la botta di Sanremo, che è la trasmissione più importante. I discografici che cosa fanno? Si occupano solo delle persone che vanno a Sanremo oppure che fanno i talent show. Altrimenti non hai nessuna possibilità di emergere.

Anche perché gli investimenti a pioggia, diciamo, sono di altri tempi, mi dicevano anche altri artisti indipendenti. È più facile rispetto a darti una mezza chance e poi vieni scaricato.

Se non c’è un ritorno immediato televisivo sei fritto. Puoi essere il più bravo del mondo ma non gli interessa. Perché i parametri sono totalmente diversi. Non esiste una trasmissione come Taratata, per esempio, molto forte sulla musica, The Old Grey Whistle Test, di cui parlavamo prima, Midnight Special in America, che noi abbiamo fatto molte volte, che sono trasmissioni di musica in televisione. Però sono trasmissioni di musica, in cui tu vedi un gruppo che suona dal vivo, che viene registrato e ripreso benissimo, che ha un buon pubblico. Ma questo in Italia non c’è più da tantissimo tempo, anzi non c’è mai stato veramente.

Quindi è una situazione culturale, diciamo, abbastanza profonda anche se negli anni che furono c’era più libertà di svisare anche a livello mentale sulle varie musiche. Anche la gratuità stessa è stata un peccato perché banalmente il disco comprato aveva già un valore nel momento in cui si spendevano i soldi. Dandogli anche una serie di opportunità e un certo tipo di approfondimento, cosa che invece oggi manca nel 99% dei casi attraverso lo streaming.

Prima c’erano i telefoni in cui dentro c’erano 3000 brani, 3000 canzoni. Dimmi tu come fai a sentire 3000 canzoni? Ne ascolti metà, poi ne ascolti un altro, sono lì e non ne fai niente. L’importante è che come al solito ciascuno si diverte. Ieri abbiamo suonato a Roma abbiamo avuto grande soddisfazione perché intanto era sold out, per quello che si può immaginare, perché era un luogo di 3500 posti, ma i biglietti in vendita erano solo 1000, per il discorso del COVID. Ed è stata una grande soddisfazione perché sono stati venduti tutti. Il pubblico era fantastico, è stato molto caloroso, veramente bello, con ancora più entusiasmo del solito se possibile. I concerti sono sempre i concerti non c’è niente da fare.

Quelli con la C maiuscola della PFM sicuramente.