Vi consiglio di vedere il video per avere una visione più ampia di Marco Parente e dei suoi album, film e libri preferiti. Prima di scriverli sotto vi segnalo che nel video Marco spiega approfonditamente le motivazioni delle singole scelte.
L’idea di intervistare la voce – e l’anima – dei Soilwork è nata pensando a The Chainheart Machine. Il secondo album della band svedese ha infatti appena compiuto 20 anni. Un periodo lungo che, per quanto mi riguarda, rappresenta esattamente quel quid di tempo che mi ha permesso di conoscere il mondo del metal. E proprio The Chainheart Machine è stato uno dei primi album che ho ascoltato.
Ricordo, e lo dico anche all’inizio della video-intervista con Bjorn Strid, quando il mio compagno di superiori e bassista dei Riul Doamnei (Fabrizio Tondini) mi prestò quel disco. Come accadeva spesso allora, lo ascoltai mentre lo registravo su una cassetta vergine. Poi ho sempre ascoltato quintalate di musica, e tantissimo metal.
La video-intervista a Bjorn Speed Strid
I Soilwork ho continuato a seguirli con molto rispetto ed un po’ di distacco. L’amore per le sonorità più dure e i casi della vita non mi hanno comunque impedito di apprezzare A Predator’s Portrait e, più recentemente, Stabbing the Drama e Figure Number Five. Ho però sempre avuto un grande apprezzamento per la vocalità di Bjorn Strid, specie nei suoi Terror 2000.
Il mio speciale sui Terror 2000 per Metal.it
Il concerto che hanno tenuto nel 2019 al Live di Trezzo sull’Adda (nel link trovate la mia recensione per Rumore) è stata come la semi-chiusura di un cerchio, di cui ho trovato l’ultima parte con l’intervista a lui, Bjorn “Speed” Strid, una delle voci più esaltanti del melodic death svedese.
Cosa ricordi del periodo in cui avete registrato The Chainheart Machine e cosa ricordi del mondo di 20 anni fa?
Wow, mmm, sto cercando di ricordare. Avevamo appena finito il tour europeo (in una specie di camper) per Steelbath Suicide e stavamo pensando a come approcciare il nuovo album. Eravamo elettrizzati, si di aver creato Steelbath Suicide che di poter fare un nuovo album e registrarlo nei celebri Fredman studio, lo studio dei sogni per ogni metallaro. In quel periodo siamo cresciuti molto velocemente come musicisti. In quegli anni City di Devin Townsend, con i suoi Strapping Young Lad, ci ha molto ispirati. Quel thrash tecnico mischiato con l’industrial, gli accordi aperti molto atmosferici, qualche ritornello…Anche noi volevamo fare qualcosa di più atmosferico, prendendo ispirazione anche dalla scena di Goteborg. Una realtà che era molto grande, anche se noi eravamo di Helsingborg. Ma volevamo comunque creare qualcosa di personale. Credo che Chainheart Machine sia thrashy ma sinfonico, nella modalità indicata da Malmsteen, come si può notare dagli assoli. Abbiamo cercato di fare qualcosa di ambizioso, di unico, di diverso. Era quello che volevamo all’epoca. Credo sia stato l’ultimo disco registrato nella location originale dei Fredman Studios. Ero molto contento del risultato.
Quanti giorni ha richiesto la registrazione?
3-4 settimane, mi pare. Sicuramente più tempo del precedente, per il quale avevamo lavorato per 2 settimane. Abbiamo cercato di avere un suono più organico. Il primo album era tutto un: “che figata! Senti questo riff che thrash, questa parte è death!”…il secondo è più focalizzato. Ricordo che per la voce io ero più sicuro di me, più veloce a cantare. La possibilità di cantare ogni giorno durante il tour di Steelbath Suicide ha fatto accadere qualcosa. Eravamo mentalmente preparati ed eccitati di poter pubblicare qualcosa di nuovo. Sono passati 20 anni, pazzesco!
Back Cover di The Chainheart Machine
Ti ricordi qualcosa di più del mondo di allora e di come lo vivevi, a 22 anni?
Non avevo (ci pensa)…oh sì, avevo solo 22 anni! Vivevo a Helsingborg, dove ho avuto il primo appartamento nel 1999. Me ne sono andato da casa in quell’anno. Ricordo un sacco di festa, chiacchierate con tanti musicisti. Ho anche registrato con i Darkane…qualche anno prima. Ascoltavamo tanta musica insieme agli altri della band. Henry Ranta (batteria) e Ola Flink (bassista) condividevano un appartamento. Mi ricordo seduto in quell’appartamento all’ultimo dell’anno. Abbiamo suonato a mezzanotte, con diversi gradi sotto zero. E’ stato pazzesco. La musica è stata una parte grande della mia vita, sempre, soprattutto allora. Vivevo in una bolla. Era tutto facile, ogni cosa. Non mi facevo domande esistenziali allora. Tutto avveniva naturalmente.
Sei l’unico membro originale di Soilwork. Ti sei tenuto in contatto con i musicisti che hanno registrato The Chainheart Machine?
Sono rimasto in contatto con Peter (Wichers). Tutto bene con lui. Nessun problema, nessuna stranezza. Non sento Henry (Ranta) da molto. Ho provato anche a scrivere un paio di volte a Ola Flink, ma non mi ha mai risposto. Non so perché. Non credo ci sia niente che non va tra noi. Credo semplicemente che si voglia lasciare alle spalle la vita precedente. Ora fa il secondino. Ha smesso con la musica, si vede che non voleva continuare. Posso anche ammirarlo. Non è sempre facile svegliarsi in un tour bus nel mezzo del nulla, senza sapere dove ti trovi. Capita sicuramente di chiedersi “cosa e perché lo sto facendo”? Non è facile stare via un mese in tour, poi tornare, poi ripartire. E non è facile far coesistere la normale vita casalinga con questo modo di vivere. E’ comprensibile una visione diversa. Spero che stiano tutti bene.
Penso che sia la reale differenza tra essere o fare l’artista…
C’è molta incertezza. Non è una vita stabile, quella del musicista. Nemmeno finanziariamente. Quando cresci e magari ti devi sposare, parlare di bambini ecc…è dura. Forse voleva qualcosa di più stabile…
Quali sono le differenze tra la composizione dei Soilwork di oggi e quelli di 20 anni fa?
Credo che gli ultimi 3 album siano molto connessi con i primi 3. Figure Number Five, Stabbing the Drama e Sworn to a Great Divide penso siano album ottimi, specie Stabbing the Drama. A quel tempo ero molto orgoglioso. Voglio essere chiaro: sono fiero di tutti, ma quei tre dischi non coincidono con quello che volevo fare con i Soilwork quando li ho fondati. Credo che gli ultimi 3 album siano più connessi con quello che voglio fare davvero. Figure, Stabbin e Sworn non suonavano focalizzati nello stesso modo. Sono molto groovy, catchy ecc. Ma i riff dei Soilwork non devono essere per forza bouncy, secondo me. Quei tre lavori sono stati influenzati dal sound americano. Molte death metal band svedesi hanno cominciato a fare tour in America in quel periodo, con un sacco di metalcore bands. C’è stato un influenzamento bidirezionale: la scena svedese ha influenzato quella americana e viceversa.
Quando è stata l’ultima volta che hai ascoltato The ChainHeart Machine e cosa ne pensi ora?
Non l’ho ascoltato per molto tempo. Credo che l’ultima sia stata quando Netflix mi ha contattato per la serie The Oa. Volevano usare una canzone da quell’album, Possessing The Angels. E’ accaduto 3 anni fa. Perché quella canzone? Perché non dall’ultimo album? Chi lo sa!
Quella è una delle più thrash dell’album…
Ricordo l’emozione di quando ho scritto quella canzone. Vivevo con i miei genitori in un piccolo paese e anni dopo Netflix mi ha chiesto proprio quel brano. Non una novità. Chi l’ha scelta dev’essere stato un fan dei Soilwork old school. Ho visto l’episodio di The Oa, il secondo della seconda stagione, se non sbaglio. Puoi sentire la canzone in sottofondo, a basso volume, con la mia voce che urla nel mezzo del brano, durante una scena molto sanguinolenta, durante un omicidio. Surreale! Mi ha dato una nuova prospettiva sulla cosa. Ho avuto la conferma che quel disco ha influenzato molta gente, soprattutto tante band metal americane. Anche Natural Born Chaos ha avuto molta influenza, un’ulteriore sfumatura direi.
Credo che anche A Predator’s Portrait sia un passaggio importante per la vostra crescita, perché siete stati in grado di unificare in un unicum aggressività e melodia. Tornando a The Chainheart Machine qual è la tua canzone preferita e il tuo testo preferito?
Wow…lasciami pensare (guarda i testi su internet). La mia preferita è Millionflame. Non ricordo esattamente il testo ma leggendo il nome ho realizzato nuovamente quanto sia connesso con quella canzone.
Millionflame live
Ricordi come è stato il tour relativo a quell’uscita?
Certo. Non abbiamo fatto un tour europeao come per Steelbath Suicide. Facevamo show nei weekend. Ricordo concerti in Belgio, in Olanda…un paio di volte con i Darkane. Erano weekend pazzi e lunghissimi! Ricordo anche live con Angelscorpse, Defleshed, Marduk, Cannibal Corpse.
Molto brutale…
Il pubblico ci urlava di andare a casa! Erano puristi del metal. Tempi interessanti. Prima che il disco fosse pubblicato andammo in Giappone.
Come fu?
Da teenager avevo volato solo una volta fino a Stoccolma. La seconda volta da Copenaghen al Charles De Gaulle di Parigi, per poi ripartire per Tokyo. Pazzesco, è stato uno dei periodi più incredibili della mia vita. “Andiamo in Giappone!”. Quando l’ho detto ai miei genitori forse hanno capito che la mia passione stava diventando una cosa seria. Siamo passati dal viaggiare in Europa in camper a suonare con Ozzy Osbourne. Poi siamo tornati in Giappone per ogni album, circa 10 volte. Si è creata una bella relazione con quel territorio, con quella gente. E ho realizzato che questa vita può funzionare. Tempi da sogno. Un sogno che diventa realtà.
Gli EX non hanno mai raccolto tanto riscontro come da quando hanno lanciato l’iniziativa “La musica guarda avanti: Band per i locali, suoniamo gratis“. Aggiungendo poi: “Se hai una band o un locale e sei interessato contattaci”. Ma che i “15 minuti di gloria” non siano necessariamente positivi lo testimonia la gravità dei commenti. “Fatela in Africa la data gratis così salvate la fame nel mondo”, “è proprio il caso che in Italia venga fatta una vera distinzione tra chi lo fa davvero per professione e chi invece è un dopolavorista che pur di suonare scrive ste cose pur di aver qualche data per saziare il proprio ego”, “Vergogna…pubblicizzare di lavorare gratis dopo mesi di disoccupazione?!”.
Quasi 300 commenti e oltre 100 condivisioni per il post incriminato
Insomma, ennesima riprova che, sui social, dire qualcosa di criticabile accende la critica sana ma pure il flame (riporto: “messaggio offensivo o provocatorio inviato da un utente di una comunità virtuale a un altro utente o all’intera comunità”). Noi siamo contrari in partenza a questa iniziativa, sia chiaro. Lo sa anche Stefano Pisani, che conosco dal 2005, quando mi portò una copia dell’album Gion Uein da recensire. L’ho poi apprezzato live con la band in vari frangenti, l’ho sempre visto ai concerti rock di altre band veronesi e sempre sentito sostenere la scena, sia a parole che con i fatti. Non è poco, in tempi in cui i social sembrano essere l’unica base per la propria credibilità.
E siccome, oltre all’iniziativa in questione, non mi piace nemmeno il linciaggio mediatico e gli preferisco l’empatia e la condivisione democratica ho deciso di intervistarlo per capire meglio e dare una chiave di lettura un po’ più approfondita, anche per eventuali critiche.
Come nasce esattamente la vostra iniziativa “La musica guarda avanti”?
Nasce dalla considerazione che il sistema musicale è costituito da vari fattori, di cui le band e i locali sono le due realtà più evidenti, spesso legate da un rapporto di amore/odio, ma di certo dipendenti l’una dall’altra. E anche dal fatto che in queste settimane viviamo tutti momenti di difficoltà, e che quando si potrà ricominciare a suonare sarà tutto diverso.
Vuoi spiegarla bene, e magari puntualizzare qualche passaggio che forse è passato sotto silenzio?
La ripresa dell’attività sarà difficile per tutti; tanti locali, magari aperti da poco, saranno in difficoltà, qualcuno non riaprirà per niente. Abbiamo sempre avuto un rapporto conflittuale con i locali, come quasi tutte le band, perché pensiamo che la musica vada pagata e il musicista rispettato. Però nel tempo abbiamo anche incontrato locali che ci hanno trattato bene. Se qualcuno di questi sarà in difficoltà, gli regaleremo una data di riapertura, con altri gruppi che vogliano eventualmente aggregarsi. Il messaggio controverso è quello che invita altre band a fare lo stesso, perché è stato inteso come “da allora in poi suoneremo sempre gratis”. Che – giustamente – è un’eresia che non abbiamo mai contemplato.
Ti aspettavi tutto questo riscontro? Ho letto commenti pesanti…
Ovviamente no, forse il messaggio poteva essere scritto meglio…quel “suoniamo gratis” un po’ generico ha fatto alzare la temperatura; molti professionisti si sono offesi. Qualche post chiarificatorio è andato perso nel putiferio; l’impressione è che non interessi capire, quanto piuttosto condannare (ma è una modalità classica dei thread web). Con qualcuno che ci ha contattato direttamente e ci ha chiesto info siamo riusciti a spiegare meglio la cosa, anzi è stata occasione per confrontarsi su alcuni suggerimenti, ma in generale si è gonfiato un caso in cui siamo stati accusati di non rispettare il lavoro e la dignità dei musicisti.
Non credi che la gratuità sia un palliativo che spesso svaluta le singole proposte, si tratti di dischi o di live?
Come band ci siamo sempre battuti per il riconoscimento dei sacrifici e dell’impegno, per suonare sempre pagati; ma il nostro “campo d’azione” è quello dei gruppi di base, underground, un livello che gravita anche su locali specifici… raramente ci siamo incrociati con professionisti; nelle band che fanno musica propria al nostro livello non militano tantissimi musicisti di professione. La proposta era principalmente rivolta a questo tipo di band. Poi ognuno ha la libertà di accettare, criticare, confrontarsi, su questo non ci siamo mai tirati indietro. Gli attacchi e gli insulti invece non ci interessano, perché non portano da nessuna parte. Il mondo della musica è molto variegato, c’è di tutto e quasi tutto è motivo di scontro: le tribute band, le cover band, chi paga per suonare, chi suona gratis pur di suonare, chi cerca di mantenere una propria integrità e coerenza. Ma poi ognuno fa come gli pare, e questo presuppone tutti i pro e contro di una scelta libera. I professionisti (cioè chi vive di musica) si sentono defraudati dai musicisti amatoriali, ma la musica originale (rock) è prevalentemente portata avanti proprio da questi ultimi. Chi ha ragione? Mi sembra limitante pensare che solo chi è un professionista abbia il diritto di suonare, come d’altra parte è sacrosanto che chi vive di musica abbia tutte le tutele del caso per preservare la propria professione. Non abbiamo una soluzione, cerchiamo solo di pensare al futuro. E non è un futuro dove le band sono costrette a suonare gratis.
Quali sono le criticità effettive, a tuo modo di vedere, del rapporto tra band e locali nel veronese?
Come in tutte le realtà ci sono band più o meno affidabili e locali più o meno preparati alla gestione della musica live. Lo scontro classico è tra le band che vogliono vedere riconosciuto il loro lavoro e locali che pensano solamente al profitto. Ma non tutti sono così, non è tutto bianco o nero. Per questo vorremmo supportare quei locali che hanno dimostrato sensibilità e rispetto. Da anni esistono mille difficoltà che hanno causato la sparizione di molti luoghi dove suonare dal vivo, come pure lo scioglimento di band. Ma è un sistema circolare: i gruppi non esistono se non possono suonare live, i locali non esistono se non ci sono gruppi. Ora, che la situazione di emergenza eleva tutto alla massima potenza, per noi è importante fare un gesto di supporto per un futuro con più opportunità per tutti. Lo facciamo anche con le band, cercando di valorizzare i gruppi di musica originale sul territorio. Il che non vuol dire smettere di battersi per un giusto compenso. Vuol dire dare un segnale, una tantum. Non ci vediamo nulla di male, né di catastrofico, a supportare la riapertura di un locale che lavora seriamente. L’appello alle band era questo: se c’è un locale che vi ha trattato bene, supportatelo con una data di apertura a costo zero. Poi si ricomincerà a litigare per il giusto compenso. Secondo noi questo non danneggia nessuno, né musicisti amatoriali, né professionisti. Un locale che riapre significa anche un palco per decine e decine di band. Si può anche non essere d’accordo, ma ognuno è libero di fare la sua scelta. Certo è che in periodi eccezionali, non si può pretendere di ragionare come fosse tutto normale.
Aldilà della bontà di quanto proposto in queste situazioni si ripresenta la criticità comunicativa dei social. Non trovi che la comunicazione su questi mezzi sia spesso priva di sfumature?
Certamente sì. Sul web la regola è attaccare senza approfondire, giudicare senza sapere né fare autocritica, seguire la tendenza piuttosto che fermarsi un attimo a ragionare. Ma c’è anche la possibilità di confrontarsi, se si è disposti a mettersi in gioco.
In un momento storico dettato dall’emergenza sanitaria, l’arte e la musica devono continuare a svolgere il loro fondamentale ruolo. È con questo spirito che resta attivo il bando di concorso dell’unico contest europeo di world music, il “Premio Andrea Parodi”, disponibile su www.fondazioneandreaparodi.it ed aperto ad artisti di tutto il mondo.
L’iscrizione è gratuita. Per partecipare occorre inviare due brani non strumentali (anche già editi), che siano identificativi di un intero progetto artistico che rientri nei canoni della world music. Le finali della 13a edizione, con la direzione artistica di Elena Ledda, quest’anno sono in programma dall’8 al 10 ottobre, come sempre a Cagliari.
Di grande interesse i bonus per il vincitore, fra cui una serie di concerti e di partecipazioni ad alcuni dei più importanti festival italiani di musica di qualità nelle edizioni del 2021: dall’“European jazz expo” in Sardegna a Folkest in Friuli, dal Negro Festival di Pertosa (SA) e allo stesso Premio Parodi, ma anche in altri eventi che saranno man mano annunciati. Oltre a questo, avrà diritto a una borsa di studio di 2.500 euro. Al vincitore del premio della critica andrà invece la realizzazione professionale del videoclip del brano in concorso, a spese della Fondazione Andrea Parodi.
– 2 brani (2 file mp3, provini o registrazioni live o realizzazioni definitive, anche già edite; indicare con quale dei due brani si intende gareggiare);
– testi ed eventuali traduzioni in italiano dei due brani;
– curriculum artistico del concorrente (singolo o gruppo);
Tra tutte le iscrizioni la Commissione artistica istituita dalla Fondazione selezionerà, in maniera anonima, da otto a dodici finalisti; i finalisti si esibiranno a Cagliari in ottobre davanti a una Giuria Tecnica (addetti ai lavori, autori, musicisti, poeti, scrittori e cantautori) e a una Giuria Critica (giornalisti). Entrambe le giurie, come negli scorsi anni, saranno composte da autorevoli esponenti del settore.
A prevalere nel 2019 è stato un gruppo multietnico, la Fanfara Station, composto da musicisti provenienti da Tunisia, Usa e Italia. Le precedenti edizioni sono state vinte nel 2018 da La Maschera (Campania), nel 2017 da Daniela Pes (Sardegna), nel 2016 dai Pupi di Surfaro (Sicilia), nel 2015 da Giuliano Gabriele Ensemble (Lazio), nel 2014 da Flo (Campania), nel 2013 da Unavantaluna (Sicilia), nel 2012 da Elsa Martin (Friuli), nel 2011 da Elva Lutza (Sardegna), nel 2010 dalla Compagnia Triskele (Sicilia), nel 2009 da Francesco Sossio (Puglia).
La manifestazione è nata per omaggiare un grande artista come Andrea Parodi, passato dal pop d’autore con i Tazenda a un percorso solistico di grande valore e di rielaborazione delle radici, grazie al quale è diventato un riferimento internazionale della world music, collaborando fra l’altro con artisti come Al Di Meola e Noa.
Partner della manifestazione sono, oltre ai festival succitati: Jazzino, Premio Bianca d’Aponte, Premio Loano per la Musica Tradizionale Italiana, Mare e Miniere, Mo’l’estate Spirit Festival, Fondazione Barùmini, Labimus (Laboratorio Interdisciplinare sulla musica dell’Università degli studi di Cagliari, Dipartimento di lettere, lingue e beni culturali), Consorzio Cagliari Centro Storico, Boxofficesardegna, Peugeot Mario Seruis Automobili.
Media partner sono Rai Radio Tutta Italiana, Rai Sardegna, Tiscali, Radio Popolare, Unica Radio, Sardegna Uno, Televisione Ejatv, Sardegnaeventi24.it, Il giornale della musica. Blogfoolk, Folk Bulletin, Mundofonías (Spagna), Petr Dorůžka (Rep. Ceca), Concertzender Nederland (Olanda).
Il Premio Andrea Parodi è realizzato dall’omonima Fondazione grazie a: Regione autonoma della Sardegna (Fondatore), Assessorato della pubblica istruzione, beni culturali, informazione, spettacolo e sport e Assessorato del turismo, artigianato e commercio; Fondazione di Sardegna; Comune di Cagliari (patrocinio e contributo); NUOVOIMAIE; SIAE – Società Italiana degli Autori ed Editori; Federazione degli Autori.
Un paio di giorni fa Antonio Bombara, gestore dell’Opificio dei Sensi e cantante dei Club Dumas, mi ha contattato per presentarmi un brano. Niente di stano: una canzone per un giornalista musicale. Sennonché questa traccia si chiama Canzone tra le stanze ed è più di una semplice composizione. E’ una dichiarazione di guerra al Covid-19. E per questo il caro Antonio, con cui ho organizzato tre rassegne musicale all’Opificio dei Sensi, mi ha chiesto di scrivere una presentazione. La trovate qui sotto, scritta nell’ottica di chi sente l’Opificio una parte di sè.
Vedere l’Opificio vuoto, senza gli eventi che ne hanno contraddistinto l’attività, è meglio solo di una cosa: non poterlo vedere affatto. E’ quello che sta accadendo in questi giorni di lockdown, in cui il Coronavirus sta creando emozioni difficili da equilibrare. Per favorire il processo di accettazione ed aiutarci ad avere fiducia in un futuro che speriamo vicino, i Club Dumas hanno deciso di fare un featuring enorme con musicisti e artisti veronesi che hanno contribuito alla nostra crescita culturale.
Abbiamo deciso insieme di chiamarlo “Canzone tra le stanze”, come se un unico brano potesse risuonare, e riportare la vita, negli spazi che viviamo quotidianamente. Spazi che, se chiudete gli occhi, potranno tornare ad essere il solito accogliente Opificio.
Una canzone contro il Coronavirus, il nostro ringraziamento a chi si spende a mani nude contro il fuoco. Saremo l’acqua che lo spegnerà.
In attesa di potervi ospitare, ancora e sempre a braccia aperte, nel Nostro locale.
Il brano con videoclip, a cui hanno partecipato artisti veronesi
Vi consiglio di vedere il video per avere una visione più ampia di Riccardo De Stefano e dei suoi album, film e libri preferiti. Prima di scriverli sotto vi segnalo che nel video Riccardo spiega approfonditamente le motivazioni delle singole scelte.
Un sorriso, dall’inizio alla fine. Questo è il risultato dell’ascolto di Moving Forward, il nuovo ep dei Lola Rising che segue l’esordio del 2016 Westward Bound. Il gruppo islandese ha molte particolarità che potrebbero attirare l’attenzione del pubblico, anche di quello generalista. Il cantante filippino Paul Medina Guevara cesella melodie pop su basi musicali reggate, circondato da fiati e suoni ampi. Se già così il risultato dovrebbe instillare curiosità, la notizia della presenza di un ukulele non passerà certo inosservata. L’ariosità delle composizioni si esplicita già dall’opener More Music. La prima volta che l’ho ascoltata mi ha colpito quanto i ragazzi siano bravi a riportare tutte le loro influenze al pop più allegro.
Una dote, visto che il pop è il genere che, per eccellenza, richiede di semplificare anche quello che può essere difficile. Questo aspetto sublima nella seconda traccia Gravity, in cui si fanno sentiere i cori femminili, ben armonizzati in tutto il disco. Il tocco hawaiano, forse proprio quello che trasmette allegria mischiato con un reggae di una dolcezza senza eguali, si respira bene nella trascinante 1943. Un altro esempio di buon pop unito con garbo alle influenze reggae, con quello stick drum di buon livello, è Strands of Oak. Gli altri due brani, tra cui la più elettrica Summer Night Dream, mantengono le coordinate e sottolineano come i Lola Rising possano veramente ambire, con le giuste strutture, ad un successo non solo di nicchia.
Alessio Garavello l’ho conosciuto ad inizio anni 2000, quando suonava in tutto il veronese, e in mezzo mondo, con gli Arthemis. Per noi piccoli metallari di provincia erano dei semi-dei, seguitissimi. Alessio da molti anni vive a Londra e qui gli è capitato di registrare Simple Truth, singolo che il bassista dei Megadeth Dave Ellefson ha letterlamente donato alla Croce Rossa Italiana.
Un bel gesto, coadiuvato dal chitarrista veronese Andrea Martongelli, che suona fisso con Ellefson. E, come ha dichiarato in un video di recente, si sente regolarmente con il lungocrinito, e davvero mitico, bassista americano. Nella band milita anche Paolo Caridi, batterista degli Hollow Haze.
Di seguito il succo dell’intervista che ho fatto con Alessio Garavello.
Come è nata la collaborazione con Ellefson & co per la registrazione di Simple Truth? Immagino centri qualcosa il tuo amico Andrea Martongelli…
Ciao Francesco, assolutamente! Come saprai Andy e’ il chitarrista della Ellefson band e la collaborazione e’ nata lo scorso novembre, quando sono venuti in tour in Europa e Inghilterra. Conosco Andy da più di vent’anni e poco prima del tour mi ha chiesto se fossi libero per fare da bass tech a David per le due date inglesi. I ragazzi hanno poi registrato lo show di Milano e mi hanno mandato le tracce da mixare qui a Londra. Il mio primo lavoro per loro e’ stato quello! Sono stati molto contenti del risultato ed abbiamo continuato la collaborazione.
Parlami del lavoro per l’ep: di cosa ti sei occupato esattamente?
Il nuovo EP contiene 4 tracce ed io ho lavorato a 3 di esse. Per il singolo Simple Truth ed i due pezzi live ho curato reamping, mixing e mastering che ho fatto qui ai Rogue Studios di Londra. La quarta traccia e’ un mix di Max Norman tratto dal primo disco di David Sleeping Giants.
Hai qualche succoso aneddoto a riguardo delle registazioni? Come è stato condividere lo spazio con Ellefson e così grandi artisti?
Posso dirti che abbiamo bevuto mille o duemila caffe! (ride) David è stato qui un paio di giorni con Andy a fare songwriting e devo dire che l’atmosfera in studio era assolutamente fantastica. Eravamo tutti in sintonia e questo ha creato il perfetto workplace per poi continuare a lavorare in remoto. David registra le tracce di basso in Arizona, Andy al suo Diablo Studio a Verona, Thom registra in Minnesota e Paolo a Bologna. Poi mandano tutto a me e lavoriamo al resto. Devo dire che è un team fantastico e siamo tutti molto “driven” nell’ottenere il massimo possibile. Ora stiamo lavorando al nuovo disco e siamo in contatto giornalmente
Garavello in azione.
Tu, oltre ad aver cantato per molti anni negli Arthemis, hai una tua band, gli A New Tomorrow. Che programmi hai in tal senso?
Sono stato parte di Arthemis e Power Quest per una decina d’anni assieme ad Andy ed abbiamo registrato e suonato moltissimo. Quando mi sono trasferito qui in Inghilterra ho fondato assieme ad Andrea Lonardi gli A New Tomorrow e qualche anno fa rilevato assieme i Rogue Studios. Abbiamo lanciato il nostro debut album Universe lo scorso 8 dicembre per Frontiers Music e stiamo programmando concerti per autunno e fine anno. Ovviamente per la situazione attuale tutto e’ stato rimandato a livello concertistico, ma stiamo lavorando al futuro. Abbiamo inoltre iniziato la stesura del nostro secondo disco!
Con chi stai lavorando in studio e quanto ti ha cambiato Londra?
Stiamo lavorando con molte band underground e più conosciute. In questo momento sto terminando il mixing del debut album dei Memories Of Old, band power metal che vede Tommy Johansson dei Sabaton alla voce. Grande disco! Sentirai… Abito in Inghilterra da 11 anni ormai e devo dirti che sono contento. Ho trovato la mia strada a livello professionale e musicale e sono felice dei risultati ottenuti! Londra e’ una città aperta a tutti e questo è sempre stato quello che mi ha affascinato, fin dalle prime volte che sono venuto a visitarla! Come ogni grande città bisogna lavorare sodo per ottenere risultati, ma mi ha dato molto e non posso che esserne grato.
Nel 1978, dopo aver venduto milioni di dischi ed essere diventato uno dei più grandi artisti internazionali degli anni ’70, Cat Stevens ha deciso di uscire dai riflettori da rock star ed andare oltre. Lo stesso anno è uscito il suo ultimo album sotto quel nome. Mentre la schiera di suoi fan era rattristata dalla notizia, insieme ai musicisti che hanno suonato con lui sia in tour che nei dischi, il cantante in realtà era euforico all’idea di questo cambiamento. “Era come tornare alla mia vera natura” riflette su quel momento. “Indietro fino all’infanzia con gli occhi spalancati”.
Giustamente intitolato Back To Earth, è stato il suo regalo di addio: un album che ha visto il cantante londinese salutare i suoi fan e allo stesso tempo spiegare la sua decisione di lasciare con canzoni come Last Love Song e Just Another Night. “Quello che succede dietro la facciata della celebrità o del palco può essere un vero e proprio mondo a sé stante”, dice ora, “e questo è quello che è stato la maggior parte delle volte. Ho mantenuto il mio buonsenso e ho tenuto gli occhi aperti.”
Oggi, 10 Aprile 2020, vede la ripubblicazione di Back To Earth su Cat-O-Log Records/BMG in formato BOX Super Deluxe che contiene l’album originale (rimasterizzato ad Abbey Road), due brani inediti (Butterfly e Toy Heart), il master stereo originale del 2001, brani live, demo rare e due registrazioni bellissime ed assolutamente inedite, l’album del fratello David Alpha Omega prodotto da Yusuf/Cat Stevens stesso e materiale del concerto per l’Unicef del 1979 Year Of The Child, l’ultima esibizione dal vivo del cantante con il nome Cat Stevens.
Dopo la sua uscita, Back To Earth ha ricevuto critiche entusiaste. Cat Stevens ha pensato a lungo e intensamente di lasciare la sua carriera musicale. Tralasciando la sua generale disillusione nei confronti della fama, il cantante ha vissuto un’epifania spirituale dopo essere stato colto da una fitta corrente e quasi annegato nuotando nell’Oceano Pacifico tre anni prima. Piangendo rivolgendosi al cielo ha detto, “Se mi salvi, lavorerò per te”, fu salvato da un’onda delicata che lo riportò sulla riva.
Quello che lui chiama il suo “graduale risveglio” e la decisione di diventare Mussulmano nel 1977, cambiando il suo nome in Yusuf Islam, è stata scatenata dal fratello nel momento in cui ha regalato al cantante una copia del Corano per il suo 27° compleanno. “Avevo scoperto un nuovo modo di vedere l’universo.” spiega. “Come un bambino che aveva viaggiato su di un razzo spirituale verso un nuovo eccitante mondo.”
“Ci sono molti messaggi affascinanti nelle canzoni e nei testi di questo album; The Artist non ha parole, perché non riuscivo a trovare le parole per lodare a sufficienza il Creatore per questo incredibile universo; Daytime trasmette il senso di innocenza che ho riscoperto; infine Never è decisamente appropriata come ultima traccia e giustamente è piena di speranza e sentimenti.”
Back To Earth è stato sicuramente un notevole ritorno in gran forma, riunendo Stevens con Paul Samwell-Smith, il produttore dei suoi storici album multi platino Tea For The Tillerman (1970) e Teaser And The Firecat (1971), oltre che a consolidare la sua collaborazione creativa con il chitarrista di lunga data Alun Davies.
Marco Parente, classe 1969, Napoli. Ci conosciamo bene. Con lui ho condiviso suonate e presentazioni dei miei libri a Verona, Padova, Trento, Firenze, quest’ultima città in cui vive e da cui mi ha chiamato per questa intervista. Le sue prime suonate serie risalgono al 1996. 8 album, 3 libri, 2 progetti paralleli all’attività solista. Anzi, 3…ed è proprio da qui che partono le mie domande.
Come è andato il giro di concerti con Paolo Benvegnù? Hai respirato ancora l’atmosfera dei Proiettili Buoni?
No, i Proiettili Buoni si sono ripresentati solo suonando la titletrack. Quello è stato un piccolo tratto della storia e dell’incontro con Paolo, avvenuto molto tempo prima. Lui aveva lasciato gli Scisma, io i CSI e abbiamo iniziato a lavorare insieme. Mi ha traghettato nell’esordio con Mescal, Trasparente. E’ stato un periodo di condivisione, con Paolo che dormiva spesso a casa mia. Poi ognuno ha preso la sua strada. I Proiettili Buoni non erano altro che canzoni rimaste fuori dal mio primo disco. Riascoltandole all’epoca avevo avuto un impeto di giustizia, che mi aveva spinto a contattare Paolo. Allora come oggi lui era stato subito pronto. In quel gruppo c’erano anche Andrea Franchi alla batteria e GionniDall’Orto al basso. Eravamo una scheggia impazzita, una parentesi. Avevamo superato tutta una serie di sovrastrutture. Abbiamo sempre chiesto molto al pubblico ma credo che anche da parte nostra ci sia stata una grande generosità. Con l’ultimo spettacolo “Lettere al Mondo” abbiamo cercato di ridare al pubblico quello che ama di più. Io i pezzi preferiti dal mio pubblico non li facevo da tanto tempo. E’ stato un atto di generosità.
Sono certo che il pubblico ne sia stato contento…
Sì, è stata una cosa molto naturale, anche l’avvicendarsi delle date. Le abbiamo cercate da soli. Non ci sono state date che non hanno funzionato. Anche tra me e Paolo ci sono state alcune sorprese sul palco. A maggio dovevamo ripartire con “Lettere al Mondo”. Ne uscirà anche un libro, per People, saranno i testi delle canzoni riportati con della prosa in aggiunta. Come d’altronde avviene durante il concerto, con racconti di quello che abbiamo vissuto, e alcuni aneddoti, ampliati.
Come è nato il video che tu e Paolo Benvegnù avete girato per Wake up qualche mese fa?
Fu la prima ufficiale a Caramanico Terme, in Abruzzo. Eravamo nell’auditorium di questo convento. Da due giorni io e Paolo stavamo facendo prove per il tour, in una situazione organizzata dai ragazzi della Cantina Majella, che ha sempre una splendida programmazione. Questa troupe di “Oh-no! Tapes” è venuta a girare un pomeriggio. Ci hanno fatto fare il brano un paio di volte, con microfoni panoramici, tutto molto naturale. Un po’ come l’idea del lavoro con Paolo: all’inizio i concerti volevamo farli senza filo. Quando ci siamo ritrovati è stata anche una sorpresa scoprire come le nostre due voci fossero così orchestrali…
Confermo: specie nella parte del video in cui salite molto di tono c’è una grande vicinanza vocale. Voi chiedete molto ma date anche una profondità diversa rispetto a quello che sento oggi a livello cantautorale. Tra i cantautori attuali chi apprezzi maggiormente e perché?
Non voglio passare per snob, o per critico…ma ho sempre avuto una difficoltà nel definirmi cantautore. Nel senso generale del termine. L’ho sempre accettato nel senso letterale. Ma se poi devi rientrare in un’estetica, e quella italiana è ingabbiante, non mi piace. Devi essere sempre legato alla parola, ma per me la musica ha un grado superiore di comunicazione. Ho passato varie fasi. Allo stato attuale non ascolto cantautori, neanche stranieri. Quindi, ahimè, non sono molto informato su quello che gira.
Che cosa ascolti?
Negli ultimi 2-3 anni ho ascoltato flamenco, approfondendo, grazie anche a mia moglie, che sta proprio studiando in quel senso. Essendo curioso sono entrato in quel mondo. Il mondo del flamenco è incredibilmente alto e ricco. Non pensiamo ai Gipsy Kings, che non hanno attinenza. Il flamenco mi ha dato una scossa. L’ultima volta che mi è successo di avere scosse è stato con l’ultimo dei Radiohead, o l’ultimoBowie. Ma poi sentivo molta stanchezza, come se effettivamente ci fossi già talmente dentro, in quel discorso, da non stimolarmi più. Il flamenco è un’arte che riguarda tutte le discipline: ballo, ritmo, musica, armonia, estetica, melodia…è una cosa che ho sempre un po’ cercato. La performance, l’unire più discipline.
Ho avuto modo di sentirti in concerto più volte negli ultimi 8 anni. L’ultima ho notato un cambio stilistico importante, più sperimentale, rispetto al cantautorato – seppur distintivo – che ha caratterizzato la tua carriera. E’ quello che ascolteremo anche sul tuo prossimo album che doveva uscire ad ottobre?
Sì. Quello che tu hai visto, l’abuso di quella macchinetta, era avvenuto prima in studio, durante la lavorazione dei pezzi. Il disco nuovo è suonato per il 95% da me, dalla postazione da cui ti parlo, quindi in maniera casalinga. Con un microfono, multieffetto per la voce e il drive. Tutti i provini poi diventavano realtà. Quello che hai sentito è un piccolo esempio di quello che riesco a fare da solo suonando. Perché quello che non mi piace dell’elettronica è quest’attesa continua di vedere qualcuno che in realtà non fa niente. Un’attesa continua perché arrivi il cantante a chiudere un cerchio, cosa che avviene raramente. Da quando è successo questo “guasto al mondo” mi sono bloccato. Non ho avuto, come molti colleghi che in parte invidio, l’orgoglio e lo slancio di reagire. Ho optato per il silenzio. Negli ultimi 35 anni per me è sempre stata un’abitudine fare qualcosa quotidianamente, per il mio lavoro. Ma non mi veniva più. Mi sembrava si fosse spostato il baricentro, mi sentivo inopportuno. Ora si sta sbloccando qualcosa. Con Black Candy siamo concordi di caricare un sacco di cose, anche materiale inedito, già registrato anni fa. Non sto parlando solo di canzoni, ma anche pillole video/audio create apposta, di una trasmissione radiofonica (“Radio Archivi Mentali”) visionaria. Vorrei ripubblicare pure il dvd fatto con Mescal e Neve Ridens un giorno, un tour con tappe strategiche a Firenze. Ha avuto poca circuitazione. Vorrei fare tutto ciò con criteri di bellezza, cosa che non ho visto spesso nelle dirette streaming di questi giorni…
Concordo. Sono cose che da un certo punto di vista possono anche sembrare una rivolta nei confronti di una situazione, ma non mi lasciano mai nulla. Temo sia anche un problema del messo. Secondo me noi non siamo ancora riusciti ad arrenderci al fatto che attraverso i social non possiamo avere una soddisfazione completa…Che rapporto hai oggi con i social network e quale con la carta stampata?
Mah, ho sempre avuto un…buon rapporto con i social. Ero consapevole di rischi, limiti e opportunità. Ho sempre pensato che se c’è del buono si possa usare. Sì, è vero che ci sono limiti oggettivi. Ma se hai idee puoi trovare delle buone vie. Ad esempio, sulle immagini, quando ho iniziato a fare la grafica del disco nuovo ho usato un programma di grafica. Ho fatto pillole creando queste gif, sono venute fuori 10 copertine. Mi sono improvvisato ma, a detta del grafico, è venuto un buon lavoro. Ne è addirittura nato un clip del primo singolo, che sarà pubblicato prossimamente. In questi giorni ho cominciato a fare riprese da qui, giocando con filtri e inquadrature. A volte basta pensarci un attimo. Tutto sommato questi mezzi, per quanto limitati, danno delle possibilità.
Diciamo che prima c’era più selezione all’ingresso…
Sì, più sforzo. Che allena molto l’anima. Ma lo sforzo, nel caso di cui sopra, si può fare. Quello è il grande equivoco del digitale, del web. Impigriscono, ti vogliono distrarre e afflosciarti. Renderti inattivo. Ma tutto questo puoi voltarlo a tuo favore.