CHIANLUCA live al GIARDINO sabato 11 marzo in apertura a FILIPPO DESTRIERI

Chianluca in arte, Gianluca Chiarelli nella vita di tutti i giorni. La dicotomia vive con l’artista, come testimonia anche questo caso. Poco importa se vive a Villafranca di Verona o a Ny. Più importante è sapere che l’11 marzo Chianluca suonerà al Giardino Music Club, uno dei locali veronesi più importanti, a ragion veduta.

Aprirà il concerto di Filippo Destrieri, storico tastierista di Franco Battiato. Che, seppur non citato nell’intervista, ha sicuramente avuto un influsso artistico sul nostro. Aldilà di questo l’occasione del Giardino sarà un modo per avere un’anteprima del disco di prossima pubblicazione.

Partiamo dalla data che terrai al Giardino. Che aspettative hai a riguardo e quali nei confronti del tuo nuovo disco?

Sono molto onorato di poter tornare per la seconda volta in un club storico come il Giardino. Le emozioni sono veramente tante e il mio genere è sempre stato perfetto per quel palco. Il nuovo disco sarà suonato in anteprima con la nuova formazione, in trio, che mi vede impegnato (per la prima volta) nel triplo ruolo di voce principale, synth bass e tastierista insieme a Gennaro Porcelli alla chitarra elettrica e Fabio Marcolongo alla batteria.

A proposito…come sono nate le nuove canzoni?

Sono nate in momenti molto diversi. Ad esempio la musica di Vivere all’infinito mi è venuta inaspettatamente mentre provavo uno dei pianoforti nel negozio di strumenti musicali ‘Zecchini’ a Verona, durante il periodo dell’università. Un’altra mi è venuta semplicemente dopo aver guardato un girasole mentre stavo riflettendo sulla vita…

Come è funzionato il lavoro in studio e chi ti ha accompagnato nel percorso?

Da un anno a questa parte sto collaborando con Discover Underground, in particolare con Stefano Cozzi, Simone Bertellini e Leonardo Morellato, un team di ragazzi con i quali ci occupiamo insieme di tutti gli aspetti a partire dalla produzione audio, mix, master a quella di video, foto etc. Un ambiente creativo molto stimolante.

Cosa puoi dire a riguardo dei singoli Disco Sapiens e La zucca nel castello

Disco Sapiens è una canzone un pò strana con la quale ho voluto strizzare l’occhio agli anni ’70 / ’80 e mi diverte molto suonarla dal vivo. È diversa da ogni altra mia canzone. Per quanto riguarda La zucca nel castello è una dei pochissimi brani in cui musica e testo sono nati pressoché contemporaneamente. Dal punto di vista produttivo è quella che ci ha fatto intuire (insieme al nuovo singolo che uscirà in primavera) quale potesse essere il vestito musicalmente adatto alle canzoni del disco e di quello che farò in futuro.

Ricordo chiaramente che ti esercitavi tantissimo al piano. Lo fai ancora e…qual è la tua strumentazione?

Certo! Ormai il vicinato mi conosce da sempre nel bene o nel male. Oltre ad esercitarmi al piano curo la voce ed eseguo ogni mattina vocalizzi come se dovessi fare un concerto anche nei periodi in cui non ne ho nessuno in programma.
Mi sono giusto da poco comprato un synth bass della Korg che affiancherà la mia storica Nord Stage con la quale emetto principalmente suoni tipo Fender Rhodes. In pratica d’ora in poi suonerò come il tastierista dei Doors, solo che dovrò anche cantare.

Quali sono i tuoi punti di riferimento musicali?

Da piccolo ascoltavo molta musica italiana come Lucio Battisti o i Pooh, che ho visto più volte dal vivo. Ho avuto la fortuna di poter incontrare dietro le quinte Roby Facchinetti. A vent’anni i Beatles sono diventati la mia ragione di vita a tal punto da averli portati come tesina scolastica all’esame di stato suonando Yesterday al pianoforte davanti ai professori. Hanno avuto un’influenza importante anche Genesis, David Bowie, Elvis Presley, The Beach Boys, Arctic Monkeys, Blur e Oasis.

Tra gli artisti underground e poco conosciuti chi citeresti, anche della stessa Verona, e perché? 

Seguo piuttosto limitatamente la scena underground veronese ma se proprio dovessi fare un nome direi gli Endless Harmony perché abbiamo iniziato più o meno parallelamente a fare concerti condividendo anche qualche volta il palco. Colgo l’occasione per citare il batterista Giuseppe Saggin e l’ex chitarrista Federico Costanzi che hanno collaborato direttamente insieme a me nella realizzazione del mio primo EP Preistoria.

Una città in cui sogni di suonare un giorno e il concerto tuo che ricordi con più nostalgia?

Un tempo avrei detto Roma o Milano e sono felice di poter affermare di aver suonato in entrambe. Probabilmente direi Londra, New York, Los Angeles o al Cavern Club di Liverpool anche se uno dei miei sogni più grandi forse sarebbe suonare nell’Arena di Verona, per la quale ho scritto la canzone Il centro dell’opera contenente nel già citato mio primo EP Preistoria uscito nel lontano 2020.

Ho avuto la fortuna di essere stato sempre abbastanza attivo dal punto di vista live già da prima dei 20 anni (ora ne ho 31, anche se non sembra) e provo nostalgia per quei primi concerti purtroppo irripetibili dove l’ansia da palco si faceva sentire gia un mese prima. Aver suonato per il 150° anniversario dell’Unita d’Italia nel Castello di Villafranca con il gruppo del liceo è uno di quei momenti.

Intervista a TONI BRUNA, tra concerti casalinghi e fuga dai social

di Francesco Bommartini

Seguo Toni Bruna da quanto ascoltai Formigole. Quel disco, probabilmente inviatomi per partecipare alle Targhe Tenco, era anche rientrato tra i miei votati, se la memoria non mi inganna. Sembra incredibile che un album cantautorale “classico”, in dialetto triestino, abbia colpito così tanto, e non solo il sottoscritto. Ma così è.

Sicuramente la figura del suo autore mi affascina: schivo (quantomeno sui social), partecipa a concerti a cui viene perlopiù invitato e si comporta in un modo totalmente differente rispetto al resto del mondo della musica. Ho quindi deciso di inviargli alcune domande.

Partiamo dall’inizio: perché hai deciso di dare il via al progetto e come é nato Formigole?

Credo che da una parte sia il risultato di una ricerca, il cui fine era trovare un modo strettamente personale per scrivere canzoni. Dall’altra, forse, questo progetto è nato in opposizione all’omologazione dettata dall’industria musicale. Non c’è stata grande pianificazione, come spesso accade, almeno per me. La musica sgorga da una
qualche fonte misteriosa, poi si possono provare ad analizzare a posteriori i motivi e le ragioni che l’hanno generata, ma è sempre un operazione che da risultati ambigui.

Sei rimasto sorpreso dal buon riscontro ottenuto da quell’album, alla luce anche del dialetto che utilizzi? A tal proposito: perché canti in dialetto?

Uscire con un qualsisi progetto musicale da Trieste è già un buon risultato, uscirne con uno in dialetto, per me, è stato e continua ad essere commovente. Non tanto per gli eventuali meriti personali ma per questioni legate alla natura della città e dei suoi abitanti. Trieste è un posto che ti porta ad abortire qualsiasi idea e iniziativa prima ancora di iniziarla, è un posto in cui si è portati a sabotare il lavoro degli altri ed il proprio, è un meccanismo psicologico profondamente radicato nella popolazione.
Canto in dialetto perchè questa è la mia prima lingua e forse, ancora, è la prima lingua parlata in città. Qui, a differenza di altri posti però, il dialetto non è un reperto da museo da tutelare e preservare, qui è una creatura ancora viva, è uno strumento per comunicare che viene reinventato quotidianamente dai parlanti.

Hai un modo particolare di promuovere il tuo progetto, ma anche molto interessante. Parlacene.

Non userei la parola promuovere, ho qualche difficoltà ad associare questo vocabolo al mio modo di fare musica. Sostituirei promuovere con “cercare di creare relazioni oneste tra chi scrive, suona e canta e chi ascolta”. Per me esiste lo scrivere e il fare musica, il resto segue una strada propria, le canzoni vanno dove vogliono andare.
Non uso i social perchè sento che non fanno al caso mio, ho provato a mettermici ma la sensazione che mi resta è quella per cui, il tempo passato a svolgere quell’attività, è tempo rubato alla vita. Per riuscire bene a “promuoversi” sui social bisogna passarci molto tempo e sinceramente preferisco fare altro. Questo meccanismo è ben visibile oggi, a mio parere, si vede che gli “artisti” che hanno successo, passano più tempo sui social che a far musica. A tutti gli effetti, nell’industria musicale, la musica è un elemento accessorio ormai.

Come affronti i concerti e come vivi la promozione dell’ultimo album?

Non ho nessuna strategia, se ci sono le condizioni, vado a suonare dove mi invitano.
Per una qualche magica coincidenza, la maggior parte delle volte, chi mi invita, sono belle persone che sono rimaste incuriosite dal mio lavoro e a cui fa piacere saperne di più. Mi piace pensare che se si lavora in maniera onesta e coerente, si producono opere che risuonano nelle persone, per cui questi valori sono importanti.

Ascolti musica italiana? Quali artisti senti di citare tra i tuoi preferiti, di ieri e di oggi?

La musica italiana non ha più rilevanza per me rispetto alla musica di un altro qualsiasi posto. Sono una creatura del confine e per fortuna non ho uno stato nazionale a cui far riferimento o a cui mi sento di appartenere. Non presto particolare attenzione a quello che succede musicalmente in Italia, probabilmente ci sono cose interessanti, ma coi tempi che corrono, penso che sia molto diffcile
scoprirle. Mi incuriosisce molto Bello Figo, è uno che riesce a star antipatico a tutti e non è facile.

Che progetti hai per il futuro?

Continuare nella direzione che ho preso già anni fa: perseguire l’obiettivo dell’indipendenza alimentare ed energetica, continuare a tessere la rete delle relazioni umane, credere nell’incredibile.

THE SAME OLD STORY, il nuovo singolo di MALO’ ai raggi x con un’intervista al cantautore

  • Perché hai deciso di camminare da solo come Malò dopo aver suonato in varie band musicali?

Come sai, appunto, ho sempre suonato in band ma sin dalla mia adolescenza ho scritto testi e associato suoni alle mie emozioni. Nel corso del primo lockdown ho deciso di prendere tutti questi pensieri, queste parole e questi suoni per renderli qualcosa di più definito da condividere con tutti

  • Quali obbiettivi ti prefiggi di raggiungere con questo tuo progetto?

Il mio obiettivo principale è quello di creare un legame sempre più stretto con la mia fan base che per me è davvero importante.
Altri obiettivi sono far uscire l’album da qui a pochissimo – ma non vi spoilero nulla – e tornare a suonare live davanti a tanta gente che ride balla e si abbraccia spensierata senza dover pensare alle regole poste, giustamente, per contenere l’emergenza da Covid.

  • Il singolo The same old story è in inglese. A cosa si deve questa scelta?

Domanda ricorrente (ride). Io ho sempre pensato che fare arte significa condividere un pezzetto della propria anima con chi ascolterà il brano, leggera il libro o guarderà il dipinto. Cantare in inglese mi permette di raggiungere e stabilire una connessione con più persone nel mondo. Ciò detto, non significa che non mi sentirete mai rivolgermi alla gente del nostro amato Paese nella nostra splendida lingua.

  • Leggo che tuo fratello è stato importante per la tua crescita musicale: come?

Esatto, Roberto è stato fondamentale nel mio percorso musicale. Grazie a lui mi sono approcciato per la prima volta alla musica ed ho deciso di iniziare a studiare teoria e pratica del pianoforte. Saranno stati i lunghi esercizi di solfeggio o la poca praticità sulla tastiera bianca e nera, ma appena mio fratello ha iniziato a suonare anche la chitarra oltre il sax, lì è scattato un amore incondizionato per le 6 corde e dopo poco anche per il basso elettrico.
Mi ha aiutato anche in un altro modo: da piccolo io non avevo un gran senso del tempo e non ero molto intonato e lui, da bravo fratello maggiore, mi prendeva un po’ in giro per questo e mi ha spronato come non mai a migliorarmi sempre più. Se oggi esisto come Malò lo devo sicuramente anche a Roberto!

  • Hai un passato da rocker, addirittura da metallaro. Come si configurano questi generi nel Malo’ di oggi?

Chi mi conosce meglio sa che ascolto di tutto. È facile sentirmi ascoltare un giorno il rap, un altro giorno il rock, poi il reggae, il jazz o il metal.
Malò è la summa di tutto ciò che ho imparato dai vari generi che ascolto e studio. Da questo punto di vista, mi piace pensare a questo progetto, a ciò che sono e ciò che creo come un viaggio tra le mille influenze musicali diverse che ho avuto nell’arco degli ultimi 13 anni.

  • Quali sono gli artisti italiani ed internazionali cui fai riferimento?

Non ci sono artisti nello specifico, anche se ho i miei artisti preferiti come tutti. Se proprio devo dirti un nome, ti dico Ren. Lui mi ha dato la forza e mi ha spronato in un momento difficile della mia vita e mi ha fatto decidere definitivamente di riscoprire la mia forza e tradurla in suoni e parole. Credo gli dedicherò una canzone (ride).

  • Ci sono dei problemi che noti nell’attuale situazione musicale italiana?

Mi avessi fatto questa domanda 6 o 7 anni fa ti avrei risposto sicuramente in maniera diversa. Ora ti dico che la scena musicale italiana e tutto ciò che a questa è connesso mi gasa. Vedo un’evoluzione interessante e costante che attira l’attenzione anche oltreoceano. Vedo tanta varietà e vedo, in un momento difficile, anche supporto da parte di alcuni attori del settore e delle istituzioni. Dopo lo shock iniziale, sono arrivate alcune good practice e le prime iniziative istituzionali: si pensi alla SIAE, al NuovoImaie e anche al Governo che ha adottato misure a riguardo nel decreto Cura Italia. Guardando le misure adottate da altri Paesi, sicuramente si potrebbe fare di più, ma penso anche che la ripartenza a tutto tondo sia supportata e sentita dalle istituzioni.

  • Cosa prevedi per il tuo futuro?

Ora sto rifinendo alcune cose dell’album ed ho iniziato a lavorare al secondo. Prevedo di non fermarmi un attimo nella scrittura, non perché non voglia ma perché ho così tanto da dire che le parole vengono fuori da sole.
Prevedo live in giro per la penisola in compagnia dei due grandi artisti, oltre che amici, Andrea Sandrone e Maurizio Belli. Sto lavorando a delle date all’estero ma, per ora, prendo tutto con le pinze, in attesa che il momento storico che stiamo vivendo si risolva e ci permetta di tornare a chiudere i bagagli anche all’ultimo minuto, pronti a partire per una nuova notte in compagnia dei fans e di chi non vede l’ora di scoprire te e la tua musica.

Intervista a MARCO PARENTE: il 23 maggio a Villa del Bene di Volargne di Dolcè (VR)

Domenica 23 maggio alle 18 Marco Parente sarà a Villa del Bene, uno spazio che a Verona mancava e che da ormai qualche tempo – pandemia permettendo – porta avanti un discorso qualitativo notevole, in grado di unire arte, musica, libri ed Eventi.

Fautore di questa rinascita per la zona di Volargne di Dolcé è l’associazione Cultura Innovativa che, grazie alla solerte collaborazione stretta con Anthill Booking di Davide Motta, e al sostegno dell’amministrazione comunale, sta creando un punto di riferimento. Anche per la musica.

le domande a Parente…

Come hai vissuto il 2020 e la pandemia in generale, sia sotto il profilo artistico che umano?

Purtroppo non riesco a scindere l’umano dall’artistico. Posso solo dire che ho molto accusato il colpo, all’inizio con la paura e poi con un’ansia bestiale. Ancora non ne siamo fuori, eppure ho la sensazioni che non abbiamo imparato la lezione. Ne veniamo fuori come degli idioti pieni di ego.

Come vivi il rapporto tra città e provincia? Te lo chiedo perché tu vivi a Firenze ma hai girato anche tanti luoghi di provincia nella tua attività artistica…

La mia infanzia, cioè il periodo più formativo della vita, l’ho passato in un paesino tra Arezzo e Firenze (Poppi). Questo continua ad essere la riserva di nutrimento per affrontare ciò che sono oggi. Nella provincia convive il meglio e il peggio di una comunità,  nelle città l’effimero di quel meglio e peggio.

Che rapporto ti lega oggi con Manuel Agnelli, Carmen Consoli e con le persone che facevano parte del Consorzio Produttori Indipendenti? 

Manuel lo considero un vero amico, Carmen una meteora istantanea, sul consorzio invece non sono ancora abbastanza obbiettivo per esprimere giudizi sensati.

Come si svolge una tua giornata tipo? 

Mi sveglio prestino, faccio colazione, mi lavo, mi vesto, prendo in mano la chitarra, sbrigo le commissioni della realtà…poi improvviso 🙂

Cosa pensi delle metodologie d’ascolto in streaming? Opportunità o limite?

A parte rarissimi casi, trovo il mezzo una magra consolazione. Mi sembra già abbastanza lo spazio e il potere che si prende la rete nella nostra vita. Il giorno che ci sarà un blackout generale, io so come continuare a suonare e farmi sentire, fosse anche solo il mio vicino di casa. Voi?

intervista con PATRICK DJIVAS (PFM): “Il mestiere del musicista è in crisi. De andre’ voleva smettere prima dei concerti insieme. La tv uccide la nostra arte, e i talent…”

di Francesco Bommartini

Sabato 19 settembre sera alle 21 la Pfm, gruppo rilevante del progressive rock italiano e mondiale, suonerà a Cerea (VR), nello spazio dell’Area Exp (acquista il biglietto).

Per celebrare quest’occasione tutt’altro che comune ho deciso di contattare Patrick Djivas, bassista del gruppo dagli anni ’70. Ne è nata una lunga chiacchierata piena di spunti, veramente interessanti. Di seguito è possibile ascoltare l’audio, a seguire la trascrizione.

L’audio intervista con Patrick Djivas

Partirei dal live che farete a Cerea, nel sud veronese: cosa devono aspettarsi i fan da questo TVB – The Very Best Tour?

Si devono aspettare intanto una carrellata della storia della PFM. Partendo anche da pezzi dell’inizio, ovviamente non tutte le tappe, altrimenti il concerto durerebbe 8 ore. Una carrellata abbastanza significativa del lavoro che abbiamo fatto. Compreso anche parti di PFM in Classic, compreso anche qualche brano di Fabrizio. Insomma, la storia della PFM.

Quasi in toto…

Esatto. Tutto tutto no, perché sarebbe veramente difficile. Però con molti episodi che hanno costellato la nostra storia.

Quanto prevedete di suonare?

Di solito suoniamo due ore, due ore e un quarto.

Cosa è rimasto fuori dalla raccolta “The Very Best” e come è avvenuta la selezione?

Considerando che abbiamo fatto una ventina di album, ovviamente c’è molta roba che rimane fuori. Di solito facciamo le cose che il pubblico ama sentire. Che comunque ci rappresentano moltissimo, quindi ci sono certi brani che non possiamo non fare. Però ci sono anche delle cose un po’ particolari, come ti dicevo: PFM in Classic, facciamo anche delle cose di Fabrizio, facciamo qualche cosa della Buona Novella, che è molto forte musicalmente. E quindi c’è un po’ di tutto. Sempre con questa mentalità di rendere ogni concerto un evento abbastanza unico perché, sai, la PFM non è mai esattamente nelle stesso modo. La nostra fortuna è che tanti anni fa abbiamo deciso (ma non per un fatto di snobismo, ma per non voler essere fagocitati in una situazione) di non utilizzare i computer. Questo per darci un po’ più di libertà, per permetterci di allungare, di accorciare. È un po’ la nostra mentalità, noi abbiamo fatto circa 6000 concentri da quando abbiamo cominciato ed è ovvio che fare 6000 concerti tutti uguali sarebbe una cosa da diventare matti. Quindi abbiamo questo approccio molto, molto libero ai brani. Non so quante volte ho suonato Celebration, ma mai due volte uguale. Credo che questo valga un po’ per tutti, nel senso che è quello che ci fa rimanere vivi sul palco, con la voglia di suonare. Poi ogni tanto viene bene, ogni tanto un po’ meno, però la gente gode sempre del fatto che ogni cosa sembra fatta, non dico, per la prima volta ma…

Spontanea.

Sì, che ci piace fare con l’appoggio del momento, che non sia un vecchio brano rivisitato e fatto mille volte sempre nello stesso modo, perché tanto lo conosciamo a memoria. Ecco questo non appartiene alla PFM come modo di fare.

La mia curiosità resta sulla selezione. Nel senso che mi piacerebbe capire, nel momento in cui c’è stata la scelta di fare questa grande compilation, cosa avete fatto? Vi siete trovati tutti, c’è qualcuno che ha selezionato più di altri?

Sai, le selezioni di solito sono quasi automatiche. Come avviene con le scalette dei concerti. Ogni volta che facciamo le scalette cerchiamo di metterci dalla parte del pubblico. Non siamo di quelli che dicono “ah io quel brano lì non lo voglio più suonare”. Perché se il pubblico se lo aspetta e vuole sentire quel brano lì, glielo facciamo. Magari in modo diverso, un po’ particolare, modificando sia l’arrangiamento che le proprie parti personali.

Scusa se ti interrompo, ma io intendevo la compilation sotto forma discografica.

Quello è lo stesso discorso. È un discorso che arriva dai concerti, da quello che succede dal vivo. Franz (Di Cioccio) è sempre stato quello che faceva le scalette, ha sempre avuto questo pallino da quando abbiamo cominciato. A lui piace molto fare questa cosa qua, poi ne parliamo tra di noi e ognuno dice la sua. Però anche nei dischi Franz tiene molto alla scaletta, è uno che sta molto attento a queste cose. Magari io un po’ meno, perché ho un approccio più da musicista, tradizionale. A me interessa di più suonare, non mi interesso a certe cose. È questo il bello di essere in un gruppo: ognuno ha un suo ruolo. Questo avviene nella PFM sia per le situazioni di tutti i giorni sia musicalmente. La PFM è stato sempre un gruppo con musicisti completamente diversi tra di loro. In un gruppo hard rock ci sono 4 musicisti che suonano hard rock, che sono nati con l’hard rock e moriranno con l’hard rock. Invece la PFM no: ha un musicista che è arrivato dal rock, uno che arriva dal jazz, uno che arriva dalla musica classica, ognuno ha il suo mondo, in cui è nato. E bene o male quel mondo te lo porti dietro per tutta la vita. Diventa un po’ la tua specialità, anche se ovviamente essendo un musicista da tantissimi anni, hai una evoluzione, acquisisci esperienza. Però la tua partenza rimarrà per tutta la vita ed è una cosa molto bella della PFM, questa. Ed è quello che ci ha permesso di fare il lavoro di Fabrizio per esempio. Perché c’è molta ecletticità, perché ogni musicista ha un bagaglio suo che mette a disposizione del gruppo e la cosa bella è che ognuno ha il totale rispetto dell’altro. Non esiste il musicista più debole nella PFM, non esiste quello che ha meno voce. Ognuno ha il suo strumento e ognuno ha la stessa voce di un altro.

Democrazia soprattutto.

È una democrazia che si basa sul rispetto mutuo, l’uno dell’altro. Soprattutto all’inizio della PFM, questa è una cosa che mi ha colpito molto quando sono entrato. Arrivavo dagli Area ed ero più improntato, come mia natura, sul rhythm and blues e dal jazz. Che erano i miei due pallini e lo sono tutt’ora. E quando sono entrato nella PFM sono stato molto sorpreso da come loro si sono aperti totalmente ai miei modi di vedere e come io sono riuscito subito a dare un mio contributo dal punto di vista musicale, non stravolgendo assolutamente quello che ero. Anzi loro volevano questa cosa qua, ed è una cosa bella. Ed è quello che ci ha permesso di fare PFM in Classic, che ci ha permesso di fare Jet Lag, che ci ha permesso di fare il lavoro con Fabrizio che è completamente diverso, è una musica che non so nemmeno come definire. Ci ha permesso di fare degli scatti di immaginazione, perché è una musica molto minimalista in certi punti ed è addirittura free rock in altri. Quindi spazia a 360°. Questa è la cosa bella della PFM e questo avviene perché ogni musicista ha la sua personalità e non ci rinuncia, e ognuno ha il totale rispetto di quello che fa l’altro.

L’hai citato prima: De André. PFM suona De André, cosa ti ricordi del concerto ritrovato, che è stato pubblicato quest’anno?

Sai queste cose sono strane perché, quando le fai, non sai cosa succederà. Non immaginavamo all’epoca, quando abbiamo fatto questa proposta a Fabrizio, che poi si è concretizzata appunto con un concerto, anzi con 40 concerti che abbiamo fatto insieme più o meno, che avrebbe avuto questa portata. È quasi di cultura in Italia perché è diventato un evento enorme e non immaginavamo che questa cosa sarebbe stata così. Quindi noi l’abbiamo vissuta molto più serenamente, cioè molto più tranquillamente, senza sentire la responsabilità di fare qualche cosa che avrebbe forse cambiato la vita a tante persone. Perché Fabrizio aveva deciso di smettere in questo mestiere. Abbiamo fatto il lavoro insieme perché lui si è buttato a fare questa cosa ma quasi come ultimo… invece l’ha cambiato completamente, ha cambiato la persona perché lui si è reso conto in quel momento che aveva ancora tantissimo da dire, che non aveva ancora detto. Che era tutta la parte musicale. Poi lui era veramente bravo perché, dopo tutto il lavoro che abbiamo fatto insieme, ha fatto dei dischi estremamente importanti, con delle produzioni importanti che non hanno niente a che vedere con le produzioni normali di cantautori. Ma chi poteva dirlo? Sai, noi abbiamo fatto la proposta e lui dopo un po’ l’ha accettata. Il mondo intero italiano diceva che era una cosa assurda, che non avrebbe mai funzionato, nessuno lo voleva fare. Ma poi Fabrizio si è incaponito, lo voleva fare e alla fine si è fatto. Ma nessuno immaginava che avrebbe avuto questa portata.

Sono qua che sto sorridendo mentre mi dici queste cose perché comunque, effettivamente, anche i lavori che De André ha fatto dopo quel ’79 sono cose che rimangono. Come anche le cose che ha fatto prima, per carità, però con una capacità musicale, con una visione musicale diversa…

Con una completezza. È diventato lì l’artista a 360°. Adesso, non per denigrare qualcuno, perché per carità ci sono tanti altri artisti fantastici (all’inizio ho suonato anche con Lucio Dalla), ma credo che Fabrizio sia il più grande di tutti, in assoluto. Una produzione così importante, con brani così importanti che attraversano i decenni come se nulla fosse, perché quei dischi che abbiamo fatto insieme nel ’79 li ascolti oggi e…

Trasmettono ancora pienamente, cioè riescono ad essere opere immortali.

Sì esatto, perché sono testi, musiche, arrangiamenti, modi di suonare che non hanno età. Non sono legati ad un genere, non sono legati ad una situazione particolare, sono musica totale. Testi e poesia totale. E che tra parecchi decenni saranno ancora lì. Perché i giovani li scopriranno sempre. È stata senz’altro una cosa molto importante per noi, ma come tante altre cose. Per esempio, PFM in Classic è stato per noi fondamentale come esperienza perché, come sempre, abbiamo fatto un’esperienza che non era la solita che fanno gli artisti rock con la musica classica. Di solito cosa si fa? Si prende un pezzo di Mozart, o di Beethoven oppure di altri autori, e si suona con l’organo o con le chitarre etc. Noi non abbiamo fatto questo, questo è troppo facile da fare. Senza nulla togliere, ma per esempio Pictures at an Exhibition di Emerson, Lake e Palmer: hanno preso musica e l’hanno fatta moderna. Però non è tanto difficile fare questo. Quello che abbiamo fatto noi è completamente diverso: abbiamo preso la sinfonica che suonava esattamente la musica originale. Quindi suonava per esempio la musica di Beethoven, ah Beethoven non c’è perché non siamo riusciti a farlo con lui perché è talmente completo nelle sue cose che non puoi aggiungere niente. Ma per esempio Mozart, l’orchestra suona esattamente la partitura originale, e noi abbiamo aggiunto quello che forse Mozart avrebbe aggiunto se avesse avuto la PFM. Quindi abbiamo creato musica nuova all’interno della musica creata da Mozart. Ci vogliono i pazzi per fare questa cosa qua. Eppure l’abbiamo fatta, è stato uno dei lavori che ci ha preso di più in assoluto perché è molto complicato da fare. Però ci piaceva questa idea di inserirci all’interno di un pezzo di musica classica, immaginando che cosa avrebbe fatto l’artista se avesse avuto la PFM, che cosa le avrebbe fatto fare, se ci fosse stata la chitarra elettrica, l’organo.

È un’attualizzazione completa di qualcosa che è stato fatto prima ma che viene comunque rivisitato in un’ottica…

Viene quasi riscritta perché abbiamo aggiunto delle cose. Non è cambiata, non abbiamo modificato niente, abbiamo solo aggiunto. Per esempio, il brano parte con un pezzo di Mozart e comincia con un assolo di basso. Probabilmente a Mozart sarebbe piaciuto perché era pazzo più di noi. Ma è stata una cosa molto azzardata, invece secondo me, e non solo secondo noi, ma anche da un punto di vista di critica (noi eravamo preoccupati da cosa avrebbe detto il mondo della musica classica) abbiamo avuto delle soddisfazioni enormi sotto questo aspetto.

Non stento a crederlo. Dopo Emotional Tattoos avete qualcos’altro che bolle in pentola, di completamente nuovo?

Certo, assolutamente. Domani io sono in studio di registrazione. Stiamo facendo il disco nuovo, siamo già a buon punto.

Qualche anteprima?

L’unica anticipazione è che non c’è niente di nuovo e che è un disco completamente diverso da tutti gli altri.

Quindi è tutto nuovo?

Tutto nuovo assolutamente. Ma non solo i brani, ma proprio l’approccio, il modo di suonare, i suoni, come abbiamo sempre fatto. Non abbiamo mai fatto dischi uguali a parte i primi due che si assomigliavano abbastanza. Ma da quando sono entrato io nel ’73 non abbiamo più fatto un disco uguale ad un altro.

Siete veramente progressivi.

Progressivi nel senso che andiamo avanti. Fondamentalmente noi siamo musicisti e quindi in partenza quello che cerchiamo di fare è divertirci. Per avere un certo tipo di resa, questo non vale solo per la musica ma per qualsiasi cosa nella vita, per qualsiasi mestiere o attività, si deve fare il massimo che sei in grado di fare, non ci sono storie. Non è che, cercando di risparmiare le forze o le energie oppure il tempo, tu riesci a fare delle gran cose. Mai. Quando tu ti impegni a fondo su ogni cosa, e questo la PFM l’ha sempre fatto su ogni nota. Non abbiamo mai lesinato su queste cose. Il lavoro con Fabrizio si basa su queste cose perché lui faceva la stessa cosa con i suoi testi, e noi l’abbiamo fatto con gli arrangiamenti, le note, gli accordi. Abbiamo lavorato finché ogni nota non poteva essere modificata. Finché non eravamo sicuri che quella era la nota giusta. Abbiamo sempre avuto questo tipo di approccio, abbiamo sempre avuto questa mentalità e questo ci ha permesso sempre di metterci alla prova, ma nemmeno questo, perché non è un discorso di vedere se sono in grado di fare questo. Ho 73 anni, che me ne frega di quello che sono in grado di fare. È una mentalità, è un modo di essere, se tu sei così sei così per tutta la vita, è un’indole e diventa una regola di vita che tu applichi a qualsiasi cosa che fai.

Spingere sull’acceleratore il più possibile per dare il meglio.

Si, per dare il meglio di quello che sei in grado di fare. Questa è la cosa importante, non è tanto dare il massimo: dare il massimo non vuol dire niente. Cos’è il massimo? C’è il mio massimo, il tuo massimo, il massimo di qualcun altro. Quello che esiste è il tuo limite e se tu sei sempre al tuo limite questo prima o poi si alza. È una specie di scala che piano piano si alza, l’esperienza diventa costruttiva. È per questo che ogni disco è completamente diverso. Perché per noi sarebbe impossibile fare un disco che assomiglia a quello che abbiamo fatto prima perché magari ha avuto successo. In America l’establishment diceva che la PFM sarebbe diventata uno dei più grossi gruppi al mondo perché facevamo tournée, la gente impazziva ai concerti, etc… Ma noi cosa abbiamo fatto? Abbiamo fatto un disco di jazz, che è Jet Lag, e ci siamo tagliati le gambe da soli praticamente. Dal punto di vista commerciale non è la migliore cosa da fare. Però noi volevamo fare quello, perché in America eravamo molto a contatto con il mondo del rock jazz, per esempio Zappa. Eravamo molto amici di queste persone, ci suonavamo insieme, ed eravamo influenzati, e volevamo suonare queste cose qua. Non abbiamo pensato a fare qualcosa che assomigliasse a ciò che funzionava bene. La cosa importante è che tu fai le cose che ti piace fare, che vuoi fare. In questo forse ci abbiamo rimesso perché non siamo diventati uno dei più grandi gruppi al mondo come diceva l’establishment americano. Però a distanza di 35 anni siamo ancora qua.

Sì e avete anche ricevuto molti premi, anche recentemente, anche dall’estero, dal Regno Unito stesso.

Siamo stati votati gruppo internazionale dell’anno nel 2018, mi sembra, proprio in Inghilterra. Siamo arrivati al 49° posto dei 100 artisti più importanti di tutti i tempi. Abbiamo avuto grossissime soddisfazioni sotto questo aspetto. A parte il fatto che noi apparteniamo alla periferia dell’impero perché non siamo né americani né inglesi. Ed è proprio difficile per un fatto tecnico, perché tu non abiti in America o in Inghilterra. Tu sei in Italia quindi qualsiasi cosa fai la devi fare esattamente come quando loro vengono in Italia, che non è una cosa che appartiene al loro mondo. Come facevamo a lasciare tutto e ad andare a vivere in America o in Inghilterra? Come avremmo dovuto fare per raggiungere certi risultati? Ci saremmo arrivati di sicuro perché avevamo l’appoggio di tutti, dei critici, del pubblico, dei discografici, delle televisioni. Al “The Old Grey Whistle Test” che era uno show in Inghilterra all’epoca estremamente importante, dove erano passati tutti, Beatles, Rolling Stones, la prima volta che dovevano andare in diretta, perché è sempre stata registrata (e tra l’altro avevano una situazione di registrazione straordinaria, sembrava uno studio di registrazione di serie A e quindi la qualità del suono che c’era in quelle riprese era strabiliante) hanno scelto la PFM. Questa è una cosa che nessuno sa ma per noi è stata una grande soddisfazione. Hanno scelto noi perché, suppongo, che con noi erano tranquilli, che le cose sarebbero andate bene. Infatti sono andate benissimo e abbiamo avuto una soddisfazione incredibile. C’era questo presentatore che aveva questi modi di fare e questo modo di parlare, a voce bassa, molto molto pacata. Anche quando presentava i gruppi di hard rock, le cose più tremende, più potenti del mondo, lui aveva sempre questo modo molto british e non faceva mai un commento. Lui presentava e basta, mai un commento. Quella volta quando abbiamo fatto la nostra composizione perché ci avevano detto che doveva durare 9 minuti, lui aveva fatto questo gesto che il giorno dopo era su tutti i giornali, perché non aveva mai fatto un commento, né positivo, né negativo. questa è stata una grandissima soddisfazione ed è stata la volta in cui era in diretta per la prima volta. Eravamo molto felici perché era andata bene. Sai, noi all’epoca facevamo 300 concerti all’anno, perché in Italia facevamo pomeriggio e sera. Facevamo due concerti al giorno per tutta l’estate, e poi facevamo la tournée americana che di solito si componeva di almeno 80 concerti, perché ci sono tutta una serie di spese che devi ammortizzare in un certo modo. Quindi noi suonavamo molto nelle università. Facevamo una tournée americana, una tournée europea e una tournée asiatica. All’epoca non suonavamo ancora in Sudamerica. Quindi facevamo tranquillamente 300 concerti all’anno. Avevamo una forma fisica che era… l’anno scorso abbiamo fatto 109 concerti ed è una cosa che per oggi è una specie di record.

109 nel 2019 equivalgono ai 300 nel passato.

Esattamente, noi all’epoca ne facevamo di più perché avevamo la forma fisica, eravamo ragazzini.

Credo che questa trasversalità che vi portate dietro, anche fra Italia ed estero, il fatto che siate piaciuti nel tempo e abbiate mantenuto probabilmente una credibilità profondo nei confronti del pubblico nonostante i continui cambiamenti a livello discografico. Però appunto c’è questa credibilità che poi traspare anche dalle tue parole e che quindi vi permette ancora oggi di girare molto. Giusto?

Bene o male se vai a vedere la PFM sei abbastanza sicuro che non sarai deluso. Troverai anche qualcosa di diverso dal solito, anche se ci hai visto centinaia di volte. Un giorno faremo un concorso e daremo una medaglia chi ci ha visto di più perché c’è gente che ci ho visto non so quante volte. Eppure questa gente dice di non stancarsi mai, che è sempre diverso e questa è la cosa più interessante del nostro mestiere. Ed è quello che ci permette di andare avanti dopo tutti questi anni senza perdere entusiasmo.

Tra l’altro mi permetto di dire, allacciandomi al discorso che facevi prima, sull’impero inteso come britannico e americano, che in realtà anche all’interno dell’Italia ci sono delle città che hanno dei vantaggi dal punto di visto dei contatti musicali e del music business. Mi vengono in mente Milano e Roma, soprattutto. Magari ci sono città, come Verona dove vivo io, in cui se nasci lì e vivi lì magari fai più fatica.

Questo è un po’ un male dei tempi. Questo succede dappertutto, anche in America, in Inghilterra: se sei di Sheffield non avrai mai le stesse possibilità di uno di Londra o di Liverpool. La stessa cosa vale in Francia. Io sono francese, abitavo a Nizza dove ho iniziato a lavorare e non c’era niente, si doveva andare a Parigi. Però la differenza è che all’epoca io ho preso le mie cose sono andato a Parigi. Questa è la differenza che c’è con oggi. Oggi, perché le cose sono cambiate, non so se sia diventato più facile o più difficile vivere. C’è chi dice che prima era molto più facile, ma io ti posso garantire che ho fatto sei mesi di fame pazzesca a Parigi, mangiavo un giorno sì e tre no.

Posso portare il punto di vista dei miei coetanei: c’è stata una liberalizzazione del viaggio, inteso proprio come spostamento, perché gli aerei costano di meno però ci vuole comunque… Però se ti sposti a Londra il costo della vita è di un certo tipo, di solito o hai la possibilità oppure facendo altri lavori… Però penso che anche all’epoca fosse così, più o meno.

Ma certo, non c’è stata un’epoca d’oro in cui tutto era facile per il musicista. Almeno quando abbiamo cominciato, non solo io ma anche i ragazzi, come Franz, è stata un’era assolutamente facile, assolutamente. È chiaro che c’era meno gente, che c’era meno concorrenza. Però, sai, non avevamo nessun tipo di formazione, non c’erano scuole, non c’erano metodi. Per suonare dovevi inventarti le cose più assurde, ascoltare più musica possibile, cercare di tirare fuori le parti dai dischi, che non era facile perché all’epoca potevi mandare un 45 giri a 33 giri per rallentarlo e cercare di capire, però andava un’ottava sotto e non capivi più niente. Non era come oggi che invece puoi fare quello che vuoi con il computer.

Può essere che gli sforzi di cui parlavi prima hanno nobilitato anche la professione.

Il risultato è stato che all’epoca, proprio il fatto che il tuo interesse per la musica, per le musiche, perché si ascoltava qualsiasi cosa, qualsiasi cosa era un’informazione, qualsiasi situazione ti insegnava qualche cosa. Io mi ricordo che ascoltavo Amália Rodrigues, che era la cantante del Fado, portoghese, bravissima. Ascoltavo Trini Lopez, che era uno che faceva una musica strana. Poi ovviamente ascoltavo i Beatles. Ogni cosa era una sorgente di informazioni. Il risultato è che imparavi ad essere musicista prima di essere strumentista perché avevi un approccio molto musicale. Lo strumento era complicato perché non c’era nessuno che ti insegnava come utilizzarlo, dovevi farlo da solo e chiaramente perdevi più tempo. Mentre adesso è esattamente il contrario. Adesso il ragazzino che inizia a suonare, che va a scuola, in 6 mesi fa le scale, le cose.

Ma anche con internet, con YouTube ci sono le cose…

Trovi mille informazioni, che ti insegnano tutti i trucchi, però diventi strumentista prima di diventare musicista.

Stavo proprio pensando a questo, al fatto che avere tutte queste basi e queste possibilità oggi possa diventare quasi un vincolo eccessivo per l’aspetto creativo e di ricerca, intesa come la intendi tu.

In un modo diverso, anche perché oggi ci sono ragazzi fantastici nella ricerca, nella creatività. Però la maggioranza oggi lavora in quel modo. Lavora sullo strumento prima di lavorare sulla musica. Quindi questi saranno i musicisti che faranno delle gran scale per tutta la vita, delle cose molto veloci ma difficilmente troveranno la loro strada.

Come abbracciate voi lo streaming digitale e che idea ti sei fatto tu sulle attuali dinamiche del music business? C’è qualcosa che cambiato e che ti dà fastidio magari?

A me tendenzialmente non dà fastidio nulla perché il mio percorso musicale già l’ho fatto. Sono molto preoccupato però per il futuro dei musicisti di oggi. Sinceramente 40 anni fa se tu mi chiedevi: “incoraggeresti un figlio a diventare musicista?”. Io ti avrei risposto di sì, senza dubbio perché è un mestiere meraviglioso, perché ti insegna ad organizzare la tua fantasia, e poi potevi vivere, magari non diventavi ricchissimo però potevi viverne. Oggi invece gli direi di fare il musicista per divertirsi, non di farne un mestiere. Perché è un mestiere che non esiste più questo.

Lo farei anche io per il giornalista.

Il mondo digitale ha un po’ stravolto tutto. Chiaramente non si può dire che sia meglio o peggio, è diverso. È completamente diverso. È un po’ come i ciabattai, non esistono più. Ci sono un sacco di mestieri che non esistono più, ma questo non vuol dire che dovrebbero esistere. È così, è l’andamento delle cose. È ovvio che per chi ha vissuto un determinato periodo ci siano delle mancanze oggi, soprattutto per chi deve fare questo mestiere. Che poi è quello che succede con lo streaming, su Youtube per esempio prendi lo 0,000001 ad ogni passaggio, che è praticamente il niente, il nulla. Infatti se tu guardi a quello che sta succedendo al mondo della musica, il 95% dei musicisti vive dando lezioni. I musicisti si dividono in due categorie adesso: quelli che imparano e quelli che insegnano.

E poi magari suonano col gruppo perché vorrebbero farlo diventare un lavoro.

In realtà non funzionano nemmeno più i gruppi, da un punto di vista professionale sto dicendo, perché poi per divertimento, per carità, tutto funziona ancora come prima, con la passione. Ma anche le cover band non funzionano più, per esempio vai in un locale per suonare e la prima cosa che ti chiedono è quanta gente sei in grado di portare.

Sentito dire da uno della PFM fa un po’ specie…

Ma è così. Noi abbiamo molti rapporti con ragazzi che ci vengono a parlare. Le cover band una volta funzionavano, 15 anni fa, 20 anni fa, c’era un certo giro. Suonavano tutti i weekend, riuscivano a vivere in qualche modo. Se tu non porti gente ai locali non ti pagano, ti pagano in rapporto a quanta gente porti.

Non è sostenibile. Io ho sempre detto, nel mio piccolo, nelle mie esperienze personali a livello musicale, che tu come band offri un minimo di servizio, e per quanto poco ti diano, anche nell’ordine, per le band emergenti, di poche centinaia di euro, deve essere comunque garantito. Non può essere un cappio al collo il discorso di quanta gente mi porti, per poi andare a prendere quello che ti spetta a fine serata e sentirti dire “sì c’è la gente ma non ha bevuto abbastanza”.

Questa cosa deriva dal fatto che la musica è diventata gratis, su internet è gratis, ormai è tutto gratis.

Questa gratuità come concetto che forse ha rovinato una serie di cose anche a livello musicale.

Ha portato tanti altri benefici. Cioè, le cose si modificheranno, non so come. Io spero che questo mestiere riesca a stare in piedi. Questa è la cosa preoccupante. Perché, sai, ci sarà comunque una selezione sempre più importante e chi riuscirà a vivere e a campare di musica saranno sempre di meno. E saranno sempre quelli più bravi, quelli che ci mettono meno tempo a fare, quelli che costano meno. Ma questo è preoccupante perché può anche darsi che si arrivi ad un punto in cui il mestiere… Non sparirà mai perché c’è la passione per la musica, per suonare. Io ricordo che quando ho iniziato a suonare vivevo solo per quello. Non avevo nessun altro interesse, pensavo solo a quello, 24 ore su 24. È una passione che ti prende ed è più forte di qualsiasi cosa. All’epoca quando cominciavi tutto poteva succedere, ma non immaginavi mai di guadagnare, di riuscire a vivere di questo mestiere. Io non ci ho mai pensato, e poi alla meglio tu immaginavi di fare il musicista finché non andavi al militare o ti sposavi. Poi finito. Forse per quello che io non mi sono mai sposato e non ho neanche fatto il militare.

Anche oggi, sembra che sia tutto libero, però rimangono questo tipo di riferimenti…

Oggi però è un po’ normale. Come fai a prenderti la responsabilità di avere una famiglia, magari un figlio, avere delle spese se fai il musicista? Basta guardare cosa è successo con il COVID-19, perché in assoluto i musicisti e il mondo dello spettacolo sono la categoria più massacrata.

Tra l’altro ti dico questo, che è venuto fuori da altre interviste nel corso degli anni. Io vedo sempre di più che i gruppi e gli artisti sono tantissimi, sarà anche che con internet si ha più visibilità, magari ce n’erano anche prima così tanti ma si vedevano di meno, si mostravano di meno. Pare quasi, oggi, che pur essendo i soldi sempre meno in questo settore, gli artisti vanno nella direzione opposta, cioè aumentano. Magari si impegnano anche molto ma vengono ripagati in visibilità, ma che è una visibilità caduca perché si parla di milioni e milioni di artisti che sono su Spotify, quindi alla fine non è una visibilità effettiva. Diminuiscono i soldi, aumenta la visibilità e aumentano gli artisti. Mi sembra un controsenso.

Per quanto tempo faranno l’artista? In Italia le uniche cose vengono fuori sono quelle che vengono fuori dalla televisione. Da X-Factor per esempio. Se però ti fai i conti, quanti sono rimasti, quanti hanno tenuto?

Due più o meno.

Questo è per quello che dicevi. Perché tutto e subito, però dura quello che dura perché non ha sostanza.

Infatti nei talent quando esci di solito ti mandano a fare, se hai avuto un buon piazzamento, il firma copie nei centri commerciali, pieni di gente. Poi ad un certo punto vengono messi da parte e magari vanno dallo psicologo perché non ci stanno dentro, perché sono passati dalle luci dei riflettori al buio.

Esattamente quello che sta succedendo oggi e poi ci sono altri fattori. Il pubblico, non dimentichiamo questa cosa, di queste trasmissioni è un pubblico giovanissimo e molto di questo pubblico non esce la sera e non va ai concerti. Ha 14 anni, la gente ha paura di mandarli ai concerti. E quindi tu vedi delle cose che hanno un risvolto discografico importante, poi vai ai concerti: “tournée cancellata”, perché il pubblico è poco. Il loro pubblico è troppo giovane per andare ai concerti. È una situazione paradossale però è così, è un cambiamento tutto questo, perché è avvenuto talmente velocemente, da un giorno all’altro. Internet che è nato un po’ zoppicante, non si capiva e poi è esploso in un modo talmente incredibile, ed è stata una cosa stravolgente che nemmeno un autore di fantascienza avrebbe potuto immaginare.

Dal Grande Fratello in poi, perché internet in Italia si è iniziato a caricare in contemporanea con quella trasmissione, che sembrava orwelliana almeno nel titolo. Da lì è iniziato ad essere un declino dal punto di vista del pubblico, non c’è un ricambio generazionale. Io sono dell’83, diciamo che gli ultimi che vanno ai concerti sempre più rari hanno sopra i 25 anni, per stare bassi.

Andrà sempre avanti questa storia. C’è anche da dire che l’Italia è uno dei paesi più difficili, nel senso che in Inghilterra per esempio si suona molto di più, ci sono molti più locali. Magari non sono grandi cose ma riesci ad essere musicista. Anche in Francia è lo stesso.

In Germania non ne parliamo, è ancora meglio, sono esplosi generi come l’heavy metal, l’hard rock.

L’Italia è particolarmente massacrata anche perché la situazione in Italia è esclusivamente legata alla televisione. Internet ha dato la botta finale, ma la botta grossa l’ha data la televisione che si è accaparrata la musica. La televisione ha preso la musica e l’ha fatta diventare delle trasmissioni televisive. La musica non è più trattata come una arte a sé ma come una trasmissione televisiva. La nostra storia musicale è attraverso la televisione. X-Factor, Amici, Sanremo e via dicendo.

Si può dire che i talent siano una bolla che ha portato un pubblico intero, soprattutto una generazione giovane, ad interpretare la musica in una certa maniera e di conseguenza anche a non dare il ricambio generazionale che dicevo prima, ai live. Ai live inteso come live rock, diciamo di musica che non è prettamente mainstream, quindi non ricalca una serie di situazioni che servono nei talent.

Perché sono trasmissione televisive e non gliene frega nulla della musica. Hanno dei parametri molto precisi da seguire, altrimenti la gente non li guarda. Questi parametri vanno seguiti. Io ho lavorato parecchio per la televisione, nei periodi in cui facevo le sigle, queste cose qui, sono diabolici i ragionamenti che fa la televisione. Quando abbiamo fatto la sigla del TG5, ci hanno dato un papiro di 15 pagine, di quello che volevano, dovevamo dire questo, fare questo, pensare questo, e doveva durare 7 secondi. La televisione però pensa tutto, non c’è niente a caso, niente, è tutto pensato e ragionato. È tutto falso e pilotato. Quindi le cose non potevano che andare in questo modo. E poi la botta di Sanremo, che è la trasmissione più importante. I discografici che cosa fanno? Si occupano solo delle persone che vanno a Sanremo oppure che fanno i talent show. Altrimenti non hai nessuna possibilità di emergere.

Anche perché gli investimenti a pioggia, diciamo, sono di altri tempi, mi dicevano anche altri artisti indipendenti. È più facile rispetto a darti una mezza chance e poi vieni scaricato.

Se non c’è un ritorno immediato televisivo sei fritto. Puoi essere il più bravo del mondo ma non gli interessa. Perché i parametri sono totalmente diversi. Non esiste una trasmissione come Taratata, per esempio, molto forte sulla musica, The Old Grey Whistle Test, di cui parlavamo prima, Midnight Special in America, che noi abbiamo fatto molte volte, che sono trasmissioni di musica in televisione. Però sono trasmissioni di musica, in cui tu vedi un gruppo che suona dal vivo, che viene registrato e ripreso benissimo, che ha un buon pubblico. Ma questo in Italia non c’è più da tantissimo tempo, anzi non c’è mai stato veramente.

Quindi è una situazione culturale, diciamo, abbastanza profonda anche se negli anni che furono c’era più libertà di svisare anche a livello mentale sulle varie musiche. Anche la gratuità stessa è stata un peccato perché banalmente il disco comprato aveva già un valore nel momento in cui si spendevano i soldi. Dandogli anche una serie di opportunità e un certo tipo di approfondimento, cosa che invece oggi manca nel 99% dei casi attraverso lo streaming.

Prima c’erano i telefoni in cui dentro c’erano 3000 brani, 3000 canzoni. Dimmi tu come fai a sentire 3000 canzoni? Ne ascolti metà, poi ne ascolti un altro, sono lì e non ne fai niente. L’importante è che come al solito ciascuno si diverte. Ieri abbiamo suonato a Roma abbiamo avuto grande soddisfazione perché intanto era sold out, per quello che si può immaginare, perché era un luogo di 3500 posti, ma i biglietti in vendita erano solo 1000, per il discorso del COVID. Ed è stata una grande soddisfazione perché sono stati venduti tutti. Il pubblico era fantastico, è stato molto caloroso, veramente bello, con ancora più entusiasmo del solito se possibile. I concerti sono sempre i concerti non c’è niente da fare.

Quelli con la C maiuscola della PFM sicuramente.

SLUT MACHINE: lo stoner rock di quattro ragazze che non hanno paura di osare. Intervista e recensione.

INTERVISTA

Da cosa nasce la voglia di suonare insieme e mettervi alla prova discograficamente e live?

Vi sono senz’altro una forte ambizione e passione alla base, che appartiene a tutte. Oltre ad aver trovato una grande chimica personale e lavorativa che ci porta a spingere sull’acceleratore.

Ho notato che non avete paura di osare. Quali sono i vostri riferimenti, tanto in ambito stoner quanto in rock e alternative?

Quello che produciamo dopotutto è frutto dei nostri ascolti! Le principali band di riferimento sono: Queens Of The Stone Age, Kyuss, Led Zeppelin, Royal Blood, Black Stone Cherry, Guano Apes, Rage Agaist The Machine…

Che tipo di caratteristiche secondo voi vi possono differenziare davvero rispetto ad altri “colleghi”?

Il sound, come prima cosa. Siamo difficilmente catalogabili per via delle tantissime influenze che caratterizzano i nostri brani. E la concezione stessa di show, che va oltre la semplice esecuzione.

Si è parlato tanto di questo tema…ma, voi vi siete mai sentite discriminate per il fatto di essere una all female band? O, al contrario, valorizzate? In che situazioni?

C’è sempre la doppia faccia della medaglia. Da una parte è innegabile la presenza di “vantaggi” (se così li possiamo chiamare) dal punto di vista di “attenzione mediatica” in quanto le all female band sono una minoranza e di conseguenza c’è una buona richiesta; dall’altra si deve purtroppo lottare
contro i pregiudizi che precludono ed associano la figura delle musiciste donne ad un puro fattore estetico/visivo, senza tener conto poi di quelle che sono le effettive capacità tecniche.

Dove provate, quanto e come preparate un concerto?

Abbiamo la nostra saletta, che ci permette di avere a disposizione tutto il tempo necessario senza restrizioni. Poi tutto dipende da che cosa si deve preparare, dal punto di vista della difficoltà e della quantità di materiale.

Come state vivendo questa situazione di sospensione e cosa sperate per il futuro?

Lockdown a parte, non ci siamo mai fermate. Abbiamo continuato a lavorare anche a distanza e lo stiamo facendo tutt’ora, preparandoci per i concerti futuri. Sfruttiamo questo momento di stallo per tornare poi più forti di prima.

RECENSIONE

Vi piacciono le belle donne che suonano rock, vero?! Beh, e se suonassero stoner rock? Vi assicuro che vi piaceranno ancor di più! Mi riferisco nello specifico alle Slut Machine, giunte al quarto album in studio intitolato Black Cage. Le sei tracce esplorano la parte più oscura e profonda della mente, con testi che descrivono azioni e reazioni, luci e ombre di stati mentali estremi.

Quello che salta subito all’orecchio, fin da I’m Done, è la cazzutaggine del sound. Tipico, sì, dello stoner più ferale, e quindi apparentemente inadeguato ad una band femminile. Che però se ne sbatte, e fa bene. E si sente anche quando Sara Matera intona arie melodiche, ma sempre toste, come nella riuscita Bug in the Glass.

Questo lavoro è in realtà più ascrivibile all’ep, ma il termine album mi torna utile per sottolineare quanto riuscito sia tutto il platter, adatto quindi per essere inserito nella cosiddetta “discografia ufficiale” della band. Che non rinuncia mai a mostrarsi per come è, anche con sound più alternativi (Man in the Black Cage).

Servono gruppi così, che si lascino andare aldilà degli steccati. I’m the Sun, con un lungo incipit atmosferico, ne è esempio definitivo. E ancora una volta riuscito. Le Slut Machine mettono da parte le figatine tipiche dello shredder e mettono tutto al servizio di Black Cage. Brave!

Intervista a MAX STEFANI: 34 anni di MUCCHIO tra “critici sfigati”. E su SCANZI…

La video-intervista a Max Stefani

I SEGRETI della voce ESTREMA: la vocal coach ANGELA CASTELLANI spiega senso e dietro le quinti di SCREAM, GROWL e molto altro…

di Angela Volpe

La video-intervista!

I primi accenni di vocalità estreme, in particolar modo scream e growl, sono emersi già negli anni 70, ma come primo esempio di vocalità estrema menzionerei Chuck Shuldiner, che fondando i Death ha dato il nome a un nuovo genere musicale, il death metal per l’appunto. Da lì in poi molti cantanti si sono avvicinati a questo stile, emulando queste vocalità, spesso senza alcun tipo di formazione, pensando che occorra semplicemente urlare o grattare la voce. Al contrario, le vocalità estreme richiedono conoscenza e utilizzo di tecniche specifiche che tu hai approfondito, ci racconti le tue esperienze in merito?

Diciamo anzitutto che io nasco come cantante rock e metal, il mio percorso vocale inizialmente si è sviluppato in quel campo stilistico, e sono sempre stata molto attratta da quelle voci che vengono definite “perturbate, sporche, sabbiose” dato che il segnale vocale non è generalmente pulito e cristallino. In particolare io ho sempre amato le voci rock calde ma graffianti ed aggressive allo stesso tempo, posso nominarti come esempi massimi del mio gusto personale voci come quelle di David Coverdale, Eric
Martin, Janis Joplin. Mi sono sempre chiesta come potessero avere quei colori e quella gamma di effetti che mi piacevano tantissimo ma che un po’ per paura un po’ perchè ero all’inizio non sapevo come riprodurre. Tieni conto che 25 anni fa, quando io ho iniziato, in Italia non si parlava di distorsione vocale, benchè ci fossero esempi anche nostrani di esperimenti nel campo come quelli svolti ad esempio da Demetrio Stratos. Ma gli insegnati di canto ben si guardavano dall’insegnarlo perchè non sapevano
come farlo e perchè questi tipi di vocalità sono sempre stati considerati pericolosi e nocivi e di serie B. Così ho iniziato un percorso di studi prima negli USA poi in Spagna e in Italia per approfondire anzitutto l’anatomia e la fisiologia della voce e per capirne il vero funzionamento, e li, mi si è aperto un mondo che tutt’ora mi piace monitorare e continuare ad esplorare attraverso corsi e studi. Nel 2009 quando già insegnavo da circa 5 anni e avevo allievi che cantavano rock e metal e che contemporaneamente facevano diventare me allieva, nel senso che studiando e correggendo i loro difetti potevo iniziare a formulare un’idea per un percorso didattico ad hoc per quel tipo di vocalità, i miei studi sono convogliati in una tesi che ho presentato all’esame finale del master in Vocologia Artistica, master di alta formazione diretto dal Dott. Franco Fussi e dalla Dott.ssa Silvia Magnani presso il distaccamento ravennate della facoltà di medicina e chirugia dell’università di Bologna. La mia tesi era uno studio che voleva portare anzitutto all’affermazione dell’esistenza delle vocalità estreme e del fatto che sempre più allievi volessero approcciarsi a questo tipo di vocalità che purtroppo sino ad allora non era mai stata considerata seriamente dalla didattica e dagli insegnanti, e far riflettere sui rischi che questo rifiuto comportava, ovvero quello di farsi male, di non cantare più di trovarsi di fronte ad una schiera di disfonici cronici ecc…ho voluto inoltre rendere noti anche gli aspetti emotivi legati alle vocalità estreme come ad esempio
il fatto che questi cantanti si sentissero abbandonati, diversi e di serie B, perchè non facevano Jazz o Soul o Lirica. Poi ho realizzato e riportato un piccolo esperimento con dei cantanti estremi “non educati” che nel mio studio hanno eseguito determinati esercizi sotto il mio controllo e seguendo determinate indicazioni, ho misurato secondo determinati parametri fisici e acustici le varie performance pre-educazione e post esercizi mostrando che lavorando sulla respirazione, sulla postura e sull’articolazione si potevano ottenere degli ottimi risultati e da li ho formulato una proposta didattica di educazione per gli stili estremi partendo dal puro Growl del death metal e dallo Scream del Black metal. Poi nel tempo, per fortuna, l’argomento ha ricevuto maggiori attenzioni tanto che lo stesso Dott. Franco Fussi in occasione di un convegno nazionale sulla voce artistica ha parlato dell’argomento e ha proposto e condotto alcuni studi specifici su quelle che oggi vengono chiamate sonorità sovraglottiche.

Nell’uso comune, si è portati a pensare che per i cantanti di generi come ad esempio black o brutal metal, non sia necessario intraprendere un percorso “scolastico”, poichè quando si pensa alle lezioni di canto si pensa solo al canto melodico, lirico o moderno. Che rischi corrono i cantanti che utilizzano questi stili vocali senza una tecnica di base?

Si purtroppo questo pensiero, è ancora abbastanza comune soprattutto in Italia, nonostante negli ultimi anni gli studi siano progrediti grazie anche al contributo di esperti di livello internazionale o di foniatri e studiosi interessati all’argomento. Poi purtroppo nell’immaginario comune e dei meno esperti vige ancora quella regola che, se qualcuno canta in un gruppo rock o metal in automatico il cantante ti può insegnare come si fa. Cosa pericolosissima dal punto di vista vocale perchè magari anche quella persona semplicemente segue un’istinto naturale ma non sa esattamente come fa a produrre un certo effetto, quindi figuriamoci se può spiegarlo ed insegnarlo a qualcun’ altro. I rischi che si corrono nel capitare nelle mani
sbagliate, o affidarsi all’imitazione non controllata o a volte anche ai tutorial di youtube, sono esattamente gli stessi, ovvero quello di creare lesioni più o meno gravi alle corde vocali e alle strutture della laringe
che vengono coinvolte e fatte vibrare quando si parla di distorsione vocale. Le lesioni comportano afonie, incapacità di controllare lo strumento vocale in generale, scarso controllo della muscolatura intrinseca della laringe e dunque insufficienze adduttorie ed infine l’insorgenza di disfonie dovute a patologie più o meno gravi come noduli, polipi, edemi che possono richiedere come soluzione anche interventi chirurgici e riabilitazione logopedica… Con la voce indipendentemente dal genere non si scherza, per questo è importante affidarsi ad un insegnante qualificato che possa assicurare e mostrare la propria competenza non solo a parole.

Secondo te, le vocalità estreme sono solo uno stile e un effetto da utilizzare successivamente all’acquisizione di una tecnica vocale tradizionale oppure può esistere un bravissimo cantante growl che però non sa intonare una melodia? Intendo dire: un cantante moderno non è per forza un lirico, in quanto si tratta di due tecniche e stili differenti; un cantante “estremo” invece, deve conoscere anche il canto melodico moderno?

In fisiologia e nella musica si parla di “eufonia” ovvero del raggiungimento del suono migliore per una determinata voce in un determinato stile e per quel particolare soggetto che emette il segnale. Quando parlo di suono migliore non intendo un suono che sia gradevole dal punto di vista estetico, ma intendo un segnale che sia realizzato nel maggiore rispetto di quelle che sono le strutture dell’apparato fonatorio e respiratorio, di un segnale la cui produzione abbia un costo a livello muscolare, sì adeguato all’energia che
richiede lo stile, ma il più possibilmente conservativo della salute dei muscoli stessi e di tutte le strutture deputate alla fonazione. Il raggiungimento dell’eufonia individuale avviene ovviamente attraverso la guida dell’insegnante ma anche attraverso un processo di educazione dell’allievo alla propriocezione. Questa educazione può solo avvenire solo se l’allievo conosce prima teoricamente e poi praticamente come funziona il proprio corpo. Dunque, posso dire che non è necessario che un cantante estremo sappia eseguire un brano di Frank Sinatra ma è necessario che conosca quali sono i meccanismi che governano la sua voce. La tecnica di base e dunque come si respira, come si gestiscono gli spazi e le strutture della laringe, come funzionano le cavità di risonanza, gli organi di articolazione sono tutte cose che accomunano il cantante “normale” a quello estremo, e sono nozioni assolutamente imprescindibili dallo
stile. Dunque, non è necessario ripeto sappia intonare un brano pop piuttosto che jazz, ma dal mio punto di vista il fatto di saperlo fare può conferire maggiore coscienza e abilità diverse anche nel cantante
estremo. Personalmente, quando inizio un percorso con un allievo preferisco fare in modo che comunque sappia fare anche questo e che possa avere la possibilità di scegliere se farlo o no. Se pensiamo a cantanti
estremi come Corey Taylor degli Slipknot o Chester Bennington dei Linkin Park il saper cantare anche in pulito è fondamentale, certo se poi uno vuole impostare la propria vocalità alla Angela Gossow o alla Dani Filth di sicuro il pulito non serve. Però immagina di dover fare un provino per una band e di saper fare solo una delle due cose, questo magari potrebbe costarti il posto, dunque io preferisco insegnare entrambe le cose e fornire più strumenti possibili.

La formazione degli allievi però, passa dalla formazione degli insegnanti. Secondo la tua esperienza e opinione, esistono percorsi formativi validi per gli insegnanti di questo tipo di tecniche?

Diciamo che sia a livello nazionale che internazionale negli ultimi dieci anni sono fiorite scuole, corsi, corsi per insegnati che insegnano agli insegnati e cose varie, che personalmente non amo particolarmente.
Io sono tutt’ora un amante estrema della scienza e di chi la pratica nel quotidiano, per cui se fossi un insegnante che si vuole formare in questo campo anzitutto farei riferimento a corsi specifici organizzati da foniatri che si occupano dell’argomento, in prima istanza per poter comprendere in maniera effettiva di cosa si tratta, e poi per avere gli strumenti che possono farmi capire se un corso tenuto eventualmente da un insegnante che si dice specializzato è veramente valido o no. Poi devo dire che esistono corsi, seminari che promettono di insegnare queste tecniche in 1/2 giorni, ma la realtà dei fatti è che questo non è vero. Anche io organizzo incontri, ma lo faccio per avvicinare l’utente all’argomento, cercando di illustrarne la
complessità. Il seminario, può mostrarti semplici esercizi, semplici trucchi per realizzare un effetto ma la realtà è che se poi non si pratica, non si ascolta questo genere musicale, non si approfondiscono la varietà
enorme di effetti che si possono avere, non si è seguiti da un insegnante qualificato la cosa rimane fine a se stessa.

Ritieni che il livello generale di formazione degli insegnanti di canto in Italia sia tale da garantire l’insegnamento corretto e senza rischi agli allievi?

Per quanto riguarda la vocalità lirica ovviamente l’unico percorso è quello del Conservatorio, che però da qualche anno si è aperto anche a discipline più moderne come il jazz. Ma come dicevo poco fa, le parole o i curriculum valgono molto poco, valgono i fatti e la realtà oggettiva. Di sicuro in Italia e all’estero esistono percorsi di formazione di livello molto alto che possono formare in maniera completa un eventuale insegnante. Diciamo che non tutti seguono questa strada perchè lunga, faticosa e anche costosa.
L’insegnamento dal mio punto di vista è una vocazione, è una missione, richiede un’etica professionale che purtroppo a volte manca nel concreto della realtà che viviamo attualmente, spesso vige più la logica della quantità che della qualità che si traduce nel “un bravo insegnante ha tanti allievi” e poco importa se la formazione dell’insegnante è magari carente o a volte sostanzialmente inesistente. Negli anni purtroppo mi è capitato di lavorare con casi estremi di allievi evidentemente disfonici ma provenienti da esperienze di anni di studio con lo stesso insegnate che attribuiva all’emotività l’incapacità di raggiungere determinate note. A volte quindi districarsi da neofita in questo ambiente purtroppo è un po’ difficile, ma i
bravi insegnati esistono, basta cercare e prestare attenzione e non affidarsi al primo che capita per pigrizia. Il corpo parla sempre in maniera molto chiara, se non si vedono progressi o peggio ancora la voce inizia ad avere problemi, se vi sentite costretti, demotivati, appesantiti o non trovate risposte chiare alle vostre domande significa che la vostra scelta non è stata corretta.

Chi si avvicina al mondo del canto per la prima volta, come può trovare un buon insegnante? Quali sono i campanelli d’allarme che ci fanno capire che stiamo imparando male o viceversa?

Guarda sul mio canale “l’anatomia per il cantante” ho realizzato proprio un breve video con quelle che io ritengo essere le regole fondamentali che possono farti capire se chi hai davanti è un bravo insegnate. Ovviamente le mie sono osservazioni personali che però credo possano fornire a chi si avvicina in prima battuta al canto alcune linee guida:
Un bravo cantante non è detto sia un bravo didatta, ma un buon insegnante di canto deve essere un bravo cantante. L’insegnamento richiede capacità di osservazione, di ascolto, esperienza, conoscenza
approfondita dei meccanismi che governano la voce. Il possedere una buona tecnica e l’avere un talento non è garanzia che chi li possiede sia anche in grado di trasferirlo ad un’altra persona. E’ per questo che un
bravo cantante può non essere un bravo didatta, ma un buon insegnante di canto deve per forza essere un bravo cantante. Si, perchè conoscere la teoria e riempirsi di nozioni senza averne esperienza diretta è
altrettanto limitante e infruttuoso. Un bravo isegnante deve avere esperienza diretta sul campo, essere INTONATO e ANDARE A TEMPO.

Avere un’ottima e approfondita conoscenza dell’anatomia e della fisiologia e di tutti i meccanismi che governano la voce. Il buon insegnante di canto è quello che sa trasferirti questo tipo di nozioni
educandoti al rispetto e alla conoscenza. La voce è uno strumento e come tale deve essere trattata, andresti mai da un insegnante di chitarra o pianoforte che nemmeno conosce come funziona il
proprio strumento?

Conoscere più metodi e tecniche possibili per facilitare il tuo apprendimento. Nel canto non esiste un metodo unico, ne esistono molti, ma questo probabilmente già lo saprai… il buon
insegnante di canto è quello che conosce questa grande varietà di metodi e che al momento giusto sa utilizzare quello che può essere più fruttuoso nel tuo percorso

Possedere una conoscenza per lo meno di base della teoria musicale e dell’armonia. Questo per metterti in condizione di comunicare in maniera corretta ed efficace con i musicisti.

Essere in grado di valorizzare la vocalità dell’allievo rispettandone l’individualità e i gusti.

Il buon insegnante di canto è colui che sa riconoscere i propri limiti e sa quando è il momento di lasciarti libero.

Parliamo di te: attualmente di cosa ti occupi?

In questo periodo di stop forzato causa pandemia globale mi sto ri dedicando alla didattica e lo sto facendo virtualmente attraverso il mio nuovo canale di youtube “l’anatomia per il cantante” (che è anche un LIBRO) dove mi sono proposta di creare video in cui parlo dell’anatomia e della fisiologia della voce e dove affronto le più svariate tematiche che riguardano la tecnica vocale e il canto anche avvalendomi dell’aiuto di grandi professionisti e medici famosi a livello nazionale come la Dott.ssa Silvia Magnani, il Dott. Alfonso Borragàn… Mi sto ri-dedicando alla didattica perchè negli ultimi anni ho lavorato molto come cantante e performer all’estero e dunque tutto il mio tempo era assorbito dall’attività live. Sono stata in tournee per 3 anni con uno spettacolo dedicato agli ABBA in cui rivesto il ruolo di Agnetha, la bionda del quartetto che mi ha sostanzialmente rapito e con cui dovremmo ripartire in tournee a partire dal prossimo Gennaio 2021. Attualmente sono in oltre nel cast del Cirque du Soleil con il quale avrei dovuto partire lo scorso Gennaio ma la cosa per ovvi motivi è stata interrotta, lavoro nei Marrano come produttrice e performer per lo spettacolo teatrale “con un pizzico di swing”, ho lavorato e lavoro come turnista e corista per pubblicità televisive o per progetti musicali inediti che necessitano di questo tipo di servizi, quando sono in Italian lavoro anche come corista in diverse cover band, ho un mio progetto di rock originale con cui ho
pubblicato tre dischi di inediti scritti da me e arrangiati dal produttore Inglese James D. Bell e usciti per l’All Out Music di Londra con lo pseudonimo di La Strange, e presto sarò di nuovo live con una fantastica
band con cui faremo cover hard rock.

PAY TO PLAY: due promoter italiani parlano di PAGARE PER SUONARE. Cancro o opportunità?!

La video intervistona sul Pay to Play

Intervista di Francesco Bommartini

Video-Intervista ad Andrea boma BOCCARUSSO: dagli oltre 300 mila iscritti su YouTube al Live durante il release party dei Rammstein

di seguito la video intervista fatta con Andrea Boma Boccarusso, chitarrista ed insegnante di chitarra che su YouTube è molto seguito. Abbiamo parlato di youtuber che ama, creazione dei suoi video, insegnamento, chitarre preferite e molto molto altro…