di Matteo Roncari
Parlare degli ANATHEMA divide sempre: c’è chi è nostalgico della prima parte della loro discografia, c’è chi apprezza invece la loro evoluzione sfociata in un rock alternativo.
Io personalmente mi reputo un amante sia dei dischi degli esordi che degli ultimi: il processo evolutivo si è mostrato certo importante ma nel caso del combo inglese l’ho sempre ritenuto graduale e logico.
Scoperti sempre a cavallo del nuovo millennio con l’ep “Pentecost III”, in un periodo autunnale di cui conservo un bellissimo ricordo.
1 – PENTECOST III

Di fatto non parliamo di un disco ufficiale ma di un ep che racchiude anche i primi pezzi degli esordi già contenuti nella raccolta “The Crestfallen”.
Basterebbe solamente citare “Kingdom” o “We, the gods” o la stessa Pentecost III, dove gli inglesi sembrano avvolgerci con le loro chitarre attraverso melodie malinconiche ed assoli penetranti.
La voce di Darren White, all’epoca cantante della band, alterna parti in growls a parti pulite, quasi recitate, rendendo i brani ancor più sinistri.
Un must per tutti gli amanti del doom, ancora oggi da considerarsi uno dei dischi fondamentali del genere.

Al secondo posto nella mia personale classifica c’è THE SILENT ENIGMA, un altro disco splendido, un altro must per gli amanti del genere e che riprende in parte le cupe atmosfere dell’ep precedente, sviluppando brani che presentano a volte strutture ricercate a volte strutture semplici ma sempre molto profonde e cariche di pathos.
“Restless oblivion” è penso uno dei brani più belli mai composti dal gruppo; ma anche “Shroud of frost” o le melodie di “Sunset of age” o della stessa titletrack si stampano nella mente dell’ascoltatore senza più uscirne.

Quasi con sorpresa inserisco tra i primi tre posti questo FALLING DEEPER: vero, ci sono album considerati significativi molto più di questo nella discografia dei nostri, ma è anche vero che ai miei occhi non è per niente facile rileggere i propri pezzi degli esordi in chiave nuova e riuscire a sfornare un capolavoro.
Già, di fatto la band riscrive i propri pezzi in uno stile rock quasi pinkfloydiano con innesti di pianoforte, di voce femminile, elementi orchestrali: riascoltare “Kingdom” o “We, the gods” o “They die” con spirito nuovo e sotto nuova luce mi ha regalato una visione romantica e la convinzione d’essere davanti ad una band di assoluto valore da un punto di vista compositivo.
Come indicano il titolo e la copertina dell’album, con questo lavoro sembra proprio di sprofondare nell’abisso di un gioiello chiamato musica.