di Francesco Bommartini
Strappa un po’ il cuore l’inizio di Dark Stills, l’album di Gabriel Douglas, questo barbutissimo americano che, a prima vista, sembra un incrocio tra Rick Rubin e un membro dei C+C=Maxigross. Il primo brano si chiama Hearts Want e si muove su una produzione minimale, in linea con il folk primigenio. Si questo mare calmo si staglia la voce di Douglas: imperfetta e quasi solenne.
Ed è questa la chiave di volta di questo lavoro: minimalismo e imperfezione. Una chitarra acustica, una voce, una stanza con un buon riverbero naturale. Sembra di vederlo, Douglas, mentre suona. La voce tenue di una candela ad illuminare il suo viso, gli occhi chiusi, la mano destra che arpeggia la bella Holding Patterns, il collo teso per beccare le note e scoprire la vita.

D’altronde se non fosse voglia di crescere e di vivere, cosa significherebbe questa musica? Senza dubbio, ca va sans dir, questo ambiente favorisce il rilassamento e il pensiero. E non ne abbiamo forse bisogno spesso, specie in tempi che bui lo sono davvero? Douglas mostra le interiore. Forse ha bisogno di farlo, sicuramente vibra. E le tastiere di Kai Brewster fanno da perfetto contraltare.
La tecnica qui non conta. Ce lo dice chiaro quando con lo strumming basilare dei primi brani, ma pure con gli arpeggi – anche se più complessi – successivi. Se la tastiera della strumentale Dark taglierà le lacrime sul vostro viso, How to Make a Home vi farà riaprire gli occhi e alzare gli occhi al cielo. Avete presente Dylan? Ecco, gli echi ci sono. Ma ancor di più mi rimanda alla vocalità dei Fleet Foxes.
Ribadisco, però, la vivacità che si respira, donata proprio da una produzione anti-major, volutamente ritirata, in ombra. Fa piacere ascoltare dischi così dopo tonnellate di loudness, di stronzate latine, di puttanate fatte tanto per mostrarsi su YouTube. Dà speranza, tutto questo. Ovviamente solo a chi ci crede, è capace di assaporare una buona tisana e respirare a fondo…
PRESAVE: https://distrokid.com/hyperfollow/gabrieldouglas/darker-still