Massimo Zamboni incarna gli anni ’90 e parte degli ’80 italiani. Lo fa da chitarrista di una delle formazioni più incendiarie, i CCCP, e della relativa bellissima continuazione come CSI. Oggi vive in mezzo al nulla, in una specie di buen retiro, sempre diviso tra musica e libri, tra Mongolia e Berlino…
intervista di Francesco Bommartini
Tu e tua moglie siete tornati in Mongolia a distanza di vent’anni. Che sensazioni hai provato e che differenze hai notato, se ci sono state? Stavolta c’era anche vostra figlia…
Ritornare in un luogo come la Mongolia porta con sé necessariamente un minor carico di sorpresa per la vastità dei luoghi, il silenzio, la minoranza umana, la sovrabbondanza animale. Ma porta anche conferme alle intuizioni assorbite venti anni prima, che ci hanno spinto in maniera ancor più determinata verso il vivere in montagna, con gli animali, le piante, accettando una serie di difficoltà e ritmi che – pur in scala infinitamente minore rispetto alla Mongolia – hanno determinato la nostra vita quotidiana. Accettare le stagioni, il clima, il silenzio, anzi, dipendere da questo; la genealogia familiare, il lavoro manuale, il valore da dare agli incontri… sono tutti insegnamenti che in quel primo viaggio hanno trovato fondamento. Ritornare con una figlia significa “osservare la sua osservazione”, farla nostra, rinnovando lo sguardo come se fosse ancora il primo.

La macchia mongolica si esplicita in tre diverse modalità: colonna sonora, libro, Film. Aldilà della modalità di fruizione ci sono discrepanze nel materiale previsto?
No, direi che è un lungo racconto svolto con differenti modalità che esprimono tutte gli stessi significati, nonostante i diversi approcci. L’abbandonarsi ai richiami, farli nostri, lasciare arrivare ciò che deve arrivare e farne tesoro. Accettare che la nostra identità sia mobile e inconosciuta e contemporaneamente ben salda, quasi non scalfibile. Questo ha significato per noi l’incontro con la macchia mongolica. Certo, l’album musicale chiede di chiudere gli occhi, il film di aprirli, il libro di ascoltare. Mi affascina l’idea di sollecitare tutti i sensi.
Un’altra zona importante per te é Berlino, cui hai dedicato il libro Nessuna voce dentro. Che tipo di gestazione ha avuto quell’opera e quali sono i luoghi che più ti affascinano di quella città?
Una lunga gestazione, se consideriamo che dal primo viaggio al libro sono
trascorsi quasi quarant’anni. Berlino è sempre presente in me, in quella città ho appreso come vivere, anzi, come volevo vivere, mi ha regalato gioie profondissime, turbamenti e momenti di sconforto assoluto. La ringrazio per questo, la sento simile alla mia essenza. Tanto che i luoghi che più amo sono i rimasugli dell’est, quelli che mi riportano al ‘900 che è il mio secolo di appartenenza. Sono i luoghi severi, composti, silenziosi, gravidi di storia
e di storie.
Come ricordi oggi il periodo CCCP e quello CSI? Ti riconosci come fonte d’ispirazione per molte band?
Periodi di grande tumulto e creatività, indimenticabili e pesantissimi, ma
quei momenti sono stati le colonne della mia vita. Sono molto riconoscente a chi li ha condivisi con me, anche se ci siamo letteralmente scannati tra noi per imporre le nostre ragioni. È valsa la pena. È stato un periodo di grande onestà dissennata, portata all’estremo, ci siamo sempre liquefatti nei momenti di maggior gloria. Non ci siamo mai trattenuti o nascosti, né seguito cronache o mode del periodo. Per questo forse ancora oggi c’è così tanto affetto verso di noi.
Che tipo di ascolti e di fruizioni artistiche caratterizzano le tue giornate negli ultimi mesi, specie da quando c’è questo lockdown?
Inaspettatamente leggo meno e ascolto pochissima musica, ne ho approfittato per dare una svolta decisa a un libro in corso e a mettere giù idee per un nuovo CD. Ma più che altro ho lavorato in esterno, tar i boschi e i campi, in un silenzio impressionante dove neanche più gli aerei invadono il cielo.